In Italia le cose non sono mai come sembrano.
Ad esempio, il brigatista Alessio Casimirri, condannato in contumacia
dalla magistratura italiana nel 1989 per aver preso parte al sequestro e
all'omicidio di Aldo Moro, noto come un irriducibile super-protetto,
per eccellenza primula rossa delle Brigate Rosse, stava per fare
rivelazioni importanti sui cinquantacinque giorni che cambiarono il
corso dell’Italia.
Diverse fonti qualificate ci confermano che nel dicembre del
1993, alcuni agenti del Sisde con i quali aveva avviato un dialogo,
sarebbero dovuti tornare in Nicaragua, dove tutt’oggi risiede, per
raccogliere alcune importanti rivelazioni, “molto più importanti della
questione di via Montalcini”, mandò a dire.
Componente del gruppo di fuoco del commando che rapì il presidente della
Dc, Casimirri riesce subito a farla franca: scappa in Francia, viene
arrestato ma può comodamente fuggire grazie ad un passaporto falso che
gli dà l’identità di Guido Di Giambattista. Difficile non pensare che
fosse protetto o vicino agli ambienti dell’intelligence. Si è sempre
parlato, inoltre, delle coperture che gli sarebbero state garantite da
ambienti vaticani e che avrebbero assicurato la sua intangibilità: non è
un mistero, dunque, la sua sorte.
L’Italia ha inutilmente chiesto la sua estradizione alle autorità del
Nicaragua, il piccolo paese sudamericano dove vive e lavora dagli inizi
degli anni ‘80, dove si è spostato, ha figli e due ristoranti, e del
quale è un regolare cittadino. Nel 2004 la corte Suprema di Giustizia
del Nicaragua ha respinto la richiesta.
Classe 1957, nome di battaglia Camillo, l’ex brigatista Alessio
Casimirri rimane l'unico latitante del gruppo delle Br che partecipò
all'agguato di Via Fani e che rapì Aldo Moro. In questi anni abbiamo
saputo ben poco di lui ma sono arrivati i suoi messaggi: avvertimenti
più o meno velati che hanno contribuito a creare la sua immagine di
assoluto intoccabile, custode protetto di molti segreti inconfessabili.
Presentò anche una denuncia al ministro dell'Interno del suo nuovo paese
e al direttore dell'ufficio per l'immigrazione nella quale spiegava di
temere "azioni criminali" nei suoi confronti: “Non dimentico - aveva
detto al quotidiano El Nuevo Diario - quello che ho passato negli
ultimi undici anni: molti tentativi da parte della autorità italiane e
diplomatici di questo paese, alcuni dei quali corrotti, di mettere in
atto azioni contro la legge. Come il tentativo di sequestrarmi,
narcotizzarmi mettermi in una cesta e portarmi con un pulmino alla
frontiera. Ho i nomi di coloro che organizzarono questo nel 1996”. Cosa
altro, se non un avvertimento?
Casimirri i suoi segreti li ha tenuti ben stretti ma il punto è che
intorno al 1993 stava per cedere. Qualche lettore ricorderà che in quel
periodo una missione di tre uomini del Sisde riuscì a stabilire dei
contatti con lui: i tre agenti partirono alla volta di Managua ed ebbero
lunghe conversazioni con uno degli uomini più ricercati d’Italia.
L’operazione resta tutt’oggi avvolta dall’ombra: non si può parlare di fallimento quando di inabissamento di quel viaggio.
All’epoca, il contatto con il compagno Camillo fu relativamente
facile: esperto sommozzatore, svolgeva in Nicaragua attività di pesca e
ricerche subacquee. Pare che non avesse chiesto alcun aiuto economico,
se non facilitazioni all’ingresso in altri paesi per poter far girare
bene i suoi affari poco floridi.
L’aspetto inedito di quegli incontri è che Casimirri ammise di fronte ai
suoi interlocutori di aver preso atto che qualcuno delle Br aveva
’tradito’, alludendo alla poca trasparenza dell’organizzazione
brigatista e alle interferenze esterne che avevano accompagnato quella
esperienza. Disse che la conferma dei suoi dubbi fu la scoperta che i
vertici brigatisti avevano scelto di non dare pubblicità agli scritti di
Moro, una parte dei quali fu ritrovata in un pannello del covo di via
Montenevoso a Milano (ottobre 1990).
Ma i primi sospetti, secondo le nostre fonti, Casimirri li ebbe subito
dopo l’assassinio di Moro. Allora fu mandato in Sardegna ad organizzare
le attività nell’isola e lì, grazie al contributo degli attivisti
locali, aveva messo a punto il progetto di assalto all’Asinara. Dovevano
entrare in azione nell’agosto del 1979, era tutto pronto. Dopo i
cinquantacinque giorni, sarebbe stata un’azione importante delle Br, un
ritorno in grande stile. Casimirri era molto deciso ma arrivò
l’ispezione da Roma: il capo, Mario Moretti, valutò la situazione e
stabilì che non se ne faceva niente. Disse che non c’era il volume di
fuoco sufficiente. Casimirri, incredulo e deluso, obbedì, spedito a
continuare la sua attività illegale a Napoli, dove si portò dietro i
dubbi sulla inattesa decisione e sull’uomo che l’aveva presa.
Sebbene Casimirri non sa cosa sia accaduto nelle prigioni in cui era
stato tenuto il leader Dc – è stato estromesso dall’operazione subito
dopo l’agguato di via Fani perché aveva subito una perquisizione -
all’epoca del suo incontro con gli uomini del Sisde, uscirono sulla
stampa molte indiscrezioni in base alle quali era stato proprio lui,
Casimirri, ad indicare in quella circostanza il vero nome dell’ingegner
Altobelli, noto nella letteratura del caso Moro come il quarto
carceriere. Si disse che lo aveva identificato in Germano Maccari, sul
cui ruolo, nonostante una tardiva confessione, c’è sempre stata una
montagna di dubbi: arrestato nell’ottobre del 1993, una perizia
calligrafica sulla firma apposta in un contratto di fornitura elettrica
fu realizzata solo nel giugno del 1996. Maccari alla fine fece delle
ammissioni e chiuse una vicenda avvolta da scurissime nubi.
In realtà, Casimirri non conosceva l’identità di quell’uomo: poteva solo
descrivere, come effettivamente fece, l’uomo che gli fu presentato come
il compagno che si sarebbe dovuto occupare degli aspetti logistici di
una importante operazione – lo riconobbe nella foto di Giovanni
Morbioli. Quella persona, raccontò Casimirri, doveva partire per il
servizio di leva, circostanza che si sarebbe dovuta assolutamente
impedire: perciò Prospero Gallinari, dopo averglielo presentato, chiese a
Casimirri di interessarsi affinchè alcune sue conoscenze presso il
ministero della Difesa potessero aiutarlo ad ottenere l’esonero dagli
obblighi di leva - ma nulla si sa circa la conclusione di questa tentata
‘raccomandazione’.
Nella relazione ufficiale scritta dai tre agenti al ritorno del loro
viaggio sulla base delle confidenze di Casimirri si legge questo: “il
misterioso individuo [Altobelli] era il braccio destro di Morucci
allorquando era in piedi l’organizzazione sovversiva clandestina
denominata Formazioni Comuniste Armate (F.C.A.) che ebbe il suo massimo
punto nell’attentato a Theodoli in via Giulia a Roma, nel 1976.
All’epoca Altobelli aveva il nome di battaglia di Germano, alto circa
1,80 mt, forse più, corporatura snella, con baffetti radi (…) era
particolarmente stimato per le sue ‘qualità militari’ [secondo tutti i
testimoni non possedute da Germano Maccari, il quale difficilmente
avrebbe scelto come nome di battaglia quello che aveva nella realtà]:
Savasta [Antonio, brigatista poi pentito] in particolare ne subiva il
fascino (…). Altobelli ad un certo punto va a vivere nell’appartamento
di via Montalcini insieme alla Braghetti”: ma i due si innamorarono e
questo fece nascere delle tensioni con Gallinari, compagno della donna, e
questa sarebbe stata una delle cause che portarono alla decisione
comune di far lasciare la casa ad Altobelli. “Dagli accertamenti
esperiti – prosegue la relazione – l’Altobelli dovrebbe identificarsi in
Giovanni Morbioli, romano….”, circostanza che trovò una conferma, come
abbiamo detto, da parte di Casimirri ma che non fu mai indagata. Ancora
nel 1995, il procuratore Franco Ionta ammise di non sapere se “il nome
di Morbioli viene fatto da Casimirri o se vi è per così dire una
sollecitazione fatta dai funzionari del Sisde ad indicare in Morbioli in
quarto uomo. Questo per dire che l’attività svolta dal Sisde sul quarto
uomo non avrebbe in realtà portato all’indicazione su Maccari ma su
persona diversa”. Dunque quella pista non venne esplorata: c’era già in
nome di Maccari in ballo, forse non si volevano interferenze?
Le circostanze rivelate da Casimirri circa il ruolo e la presunta
identità dell’ingegner Altobelli, uomo legato a Morucci, devono poi
essere legate ad un altro episodio riferito dall’ex brigatista rifugiato
in Nicaragua: un giorno Valerio Morucci gli fece visita nel negozio che
Casimirri gestiva a Roma, nei pressi della zona di Monteverde.
All’interno di quel locale c’era un pannello scorrevole che nascondeva
la parte retrostante. In quell’occasione Morucci disse che l’idea era
molto interessante e, in effetti, bisogna ricordare che nel primo
processo Moro, anche sulla base delle testimonianze dei pentiti Patrizio
Peci e Antonio Savasta, si parlò molto della possibilità che Moro
potesse essere stato nascosto per un tempo non definibile nel
retrobottega di un negozio. Peci dice che si trattava di un negozio di
caccia e pesca, Savasta specifica che si trovava nella zona di Piazza S.
Giovanni di Dio – vicino Monteverde, appunto. Morucci, secondo questa
ricostruzione, potrebbe aver chiesto ad Altobelli di realizzare
quell’idea nel covo-prigione. Ma ciò che interessa di più è che
Casimirri, come abbiamo visto, descrisse l’uomo, fornendo alcuni
particolari che indussero successivamente gli investigatori a
identificare la persona in Giovanni Morbioli, un terrorista che nessuno
si prese però la briga di andare ad interrogare. Casimirri, vista la
foto di Morbioli che gli fu inviata, mandò a dire agli uomini del Sisde
che al 100% si trattava del quarto uomo: Casimirri scrisse la sua
opinione su un foglietto che fu poi mostrato durante il processo Moro
quinques.
Oltre al capitolo “Altobelli”, l’operazione Nicaragua portò ad
individuare in Algeria, e dunque già dall’agosto del 1993, i latitanti
Rita Algranati e Maurizio Falessi, ma non si hanno notizie di uno
sviluppo delle indagini: i due, in effetti, furono arrestati in Egitto
solo molto tempo dopo, nel gennaio del 2004, dopo un’operazione condotta
dal Sisde guidato da Mario Mori.
Detto tutto questo, il punto più scottante riguarda l’evoluzione che la
collaborazione avviata sembrava destinata ad avere. Casimirri, secondo
le nostre fonti, era disponibile a raccontare particolari molto
importanti del caso Moro, tanto che era stato già fissato un nuovo
incontro in Nicaragua per il dicembre successivo: solo che
l’appuntamento saltò, l’operazione Nicaragua fu bruciata.
Casimirri non prese molto bene uno scoop del quotidiano L’Unità
del 16 ottobre 1993 che, all’indomani dell’arresto di Germano Maccari,
lo accreditava come una delle possibili fonti del Sisde nell’operazione
sul “quarto uomo”. Quattro giorni dopo, il 20 ottobre 1993, un servizio
del telegiornale serale del secondo canale della Rai riferì che il
latitante aveva fatto sapere ad un giornalista collaboratore della
testata che non era più disposto a rilasciare dichiarazioni per
rogatoria ai giudici italiani e che intendeva scomparire dalla
circolazione.
Naturalmente, la notizia sulla missione svolta in Nicaragua era stata
diffusa da ambienti dei servizi: solo ed esclusivamente lì era noto che
gli agenti impiegati nell’operazione erano stati tre, come correttamente
si raccontava nell’articolo. Neanche i magistrati che sapevano del
viaggio conoscevano quel particolare.
Non sappiamo cosa avrebbe rivelato Casimirri. Tutto fa pensare che la
sua uscita di scena abbia garantito la riservatezza di fatti indicibili e
per questo si può azzardare un paragone: le interminabili indagini
sulla strage di Piazza Fontana registrano, tra depistaggi, omissioni e
fughe ‘controllate’ dei suoi protagonisti anche il “licenziamento” di un
informatore del Sid di Padova, noto come “la fonte Tritone”. Si è poi
saputo che si trattava di Gianni Casalini e che sapeva molte cose
importanti sulla strage ma il generale Maletti chiese la rapida
“chiusura della fonte”: parlava troppo e dava notizie attendibili.
Casalini fu poi ascoltato in anni recenti dal giudice Guido Salvini che
raccolse importanti elementi investigativi.
Ecco, Alessio Casimirri, la primula rossa delle Br, potrebbe essere
stato il “Casalini del caso Moro”: non si sa chi sia stato il ‘Maletti’
della situazione ma c’è sempre una fonte a cui tappare la bocca.
Stefania Limiti
ottobre 2012

Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.
martedì 16 ottobre 2012
Caso Moro, parla l'artificiere che per primo vide il corpo di Moro
«Eravamo in guerra». Così racconta gli anni di piombo Vitantonio Raso,
autore del libro «La bomba Umana», in cui ripercorre la tragica scoperta
del corpo dell'onorevole Aldo Moro, stipato nel bagagliaio della
Renault 4 color amaranto. «Oggi paragonerei i 55 giorni del rapimento
Moro al crollo delle Torri Gemelle dell'11 settembre: un attacco al
cuore dello stato». Lo Stato e l'antistato, le Brigate rosse, il
terrorismo di destra e di sinistra, il contrasto tra la legalità e la
sovversione, il panico. Il vissuto personale di Vitantonio, originario
di Serre (Salerno), si intreccia con la storia sociale collettiva, fino a
diventarne involontariamente protagonista indiscusso. Oggi ha 58 anni, è
cavaliere al merito della Repubblica Italiana e funzionario in pensione
della presidenza del Consiglio dei Ministri. All'epoca non aveva ancora
24 anni, ed era già specializzato come artificiere-antisabotatore.
«Quella mattina fui uno dei primi ad arrivare in via Fani. All'epoca non
si poteva dare inizio alle operazioni prima dell'arrivo
dell'artificiere antisabotatore. C'erano brutti segnali. C'era stato il
furto di grosse quantità di esplosivo. C'erano tutti i presupposti per
un attentato».
Cosa provò?
«La sensazione fu orribile. Conoscevo quasi tutta la scorta: erano ragazzi della mia età. Sangue e bossoli dappertutto. Centinaia di colpi sparati. Il sangue ancora scorreva. Uno scenario inquietante. Ho cercato di trovare una ragione e un senso a quegli anni, ma non riesco a dimenticare. Fu disposto dal procuratore della Repubblica di Roma, Achille Gallucci, che fossi solo e soltanto io a seguire il caso, non perché fossi più bravo, ma per un fatto tecnico, perché in via Fani avevo lasciato le mie impronte. La tensione era alta, non bisognava sottovalutare nulla».
Che atmosfera si respirava?
«In quei 55 giorni Roma era una bomba a ciel sereno, tutte le strade erano bloccate, non si muoveva nulla, neanche la criminalità organizzata. Per la prima volta fu usato l'esercito come appoggio alle forze di polizia. Telefonate anonime, valigie sospette, anche per depistare: ho dormito pochissimo, sempre in allerta».
Parliamo del giorno del ritrovamento della Renault 4 col corpo di Moro.
«Erano le 11 di mattina. La volante 23 della polizia venne a prendermi in ufficio. Proseguimmo a velocità sostenuta. Furono molto vaghi: mi dissero che stavamo andando al centro di Roma, che c'era questa macchina e null'altro. Nessuno mi parlò di Moro. Arrivai alle 11.30. Fui lasciato solo. Una solitudine estrema. Era il mio compito: ero un servitore dello stato, che stava sacrificando se stesso. La Renault era completamente chiusa, anche il bagagliaio. La mia attenzione fu catturata da quella coperta di tipo militare. Sopra era appoggiato un portaoggetti di colore nero: dentro c'era una catenina d'oro, un orologio e un assegno del Banco di Santo Spirito intestato ad Aldo Moro. Lì capii. Il mio pensiero fu: oggi mi fanno la pelle, salto io e tutta la macchina. Il significato era chiaro, era stato colpito l'uomo dello stato al cuore dello Stato. Provai uno sdegno totale. Mi sono sentito come un servitore dello stato che muore. Noi credevamo in quei valori, lavoravamo 24 ore su 24. Quella di via Caetani era una disfatta».
Come ha vissuto dopo quell'evento?
«Passati quei giorni, non ho avuto più stimoli e nessuno mi ha cercato. È inevitabile portarsi dentro una simile vicenda. Nel ‘86 fui posto in congedo: accaddero strane cose e molti amici furono ammazzati».
Le sono rimasti dei dubbi?
«Ancora oggi mi aspetto delle risposte. È un caso ancora aperto e da discutere, con tasselli mancanti. Perché tutto questo arco di tempo tra la telefonata mattutina e il nostro intervento alle 11.30? Perché il diniego a raccontarmi il contenuto di questa telefonata? Perché non sono mai stati chiamato a testimoniare?».
Perché ha scelto il titolo «La bomba umana?»
«Io non sapevo nulla. La bomba simboleggia il silenzio di quella mattina: tutti sapevano, tranne me. Questa bomba umana potrebbe essere ancora dentro di me, esplosa o inesplosa. Ancora oggi è presente e potrebbe esplodere. Lo stato ha la responsabilità enorme di non averlo salvato, attraverso la linea della fermezza e decidendo per la non-trattativa. Ho avvertito che eravamo tutti pilotati, noi servitori dello Stato e anche i terroristi. C'erano tante classi politiche che non volevano il compromesso storico».
Barbara Landi
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2012/15-ottobre-2012/caso-moro-parla-artificiere-che-primo-vide-corpo-moro-2112257615662.shtml
Cosa provò?
«La sensazione fu orribile. Conoscevo quasi tutta la scorta: erano ragazzi della mia età. Sangue e bossoli dappertutto. Centinaia di colpi sparati. Il sangue ancora scorreva. Uno scenario inquietante. Ho cercato di trovare una ragione e un senso a quegli anni, ma non riesco a dimenticare. Fu disposto dal procuratore della Repubblica di Roma, Achille Gallucci, che fossi solo e soltanto io a seguire il caso, non perché fossi più bravo, ma per un fatto tecnico, perché in via Fani avevo lasciato le mie impronte. La tensione era alta, non bisognava sottovalutare nulla».
Che atmosfera si respirava?
«In quei 55 giorni Roma era una bomba a ciel sereno, tutte le strade erano bloccate, non si muoveva nulla, neanche la criminalità organizzata. Per la prima volta fu usato l'esercito come appoggio alle forze di polizia. Telefonate anonime, valigie sospette, anche per depistare: ho dormito pochissimo, sempre in allerta».
Parliamo del giorno del ritrovamento della Renault 4 col corpo di Moro.
«Erano le 11 di mattina. La volante 23 della polizia venne a prendermi in ufficio. Proseguimmo a velocità sostenuta. Furono molto vaghi: mi dissero che stavamo andando al centro di Roma, che c'era questa macchina e null'altro. Nessuno mi parlò di Moro. Arrivai alle 11.30. Fui lasciato solo. Una solitudine estrema. Era il mio compito: ero un servitore dello stato, che stava sacrificando se stesso. La Renault era completamente chiusa, anche il bagagliaio. La mia attenzione fu catturata da quella coperta di tipo militare. Sopra era appoggiato un portaoggetti di colore nero: dentro c'era una catenina d'oro, un orologio e un assegno del Banco di Santo Spirito intestato ad Aldo Moro. Lì capii. Il mio pensiero fu: oggi mi fanno la pelle, salto io e tutta la macchina. Il significato era chiaro, era stato colpito l'uomo dello stato al cuore dello Stato. Provai uno sdegno totale. Mi sono sentito come un servitore dello stato che muore. Noi credevamo in quei valori, lavoravamo 24 ore su 24. Quella di via Caetani era una disfatta».
Come ha vissuto dopo quell'evento?
«Passati quei giorni, non ho avuto più stimoli e nessuno mi ha cercato. È inevitabile portarsi dentro una simile vicenda. Nel ‘86 fui posto in congedo: accaddero strane cose e molti amici furono ammazzati».
Le sono rimasti dei dubbi?
«Ancora oggi mi aspetto delle risposte. È un caso ancora aperto e da discutere, con tasselli mancanti. Perché tutto questo arco di tempo tra la telefonata mattutina e il nostro intervento alle 11.30? Perché il diniego a raccontarmi il contenuto di questa telefonata? Perché non sono mai stati chiamato a testimoniare?».
Perché ha scelto il titolo «La bomba umana?»
«Io non sapevo nulla. La bomba simboleggia il silenzio di quella mattina: tutti sapevano, tranne me. Questa bomba umana potrebbe essere ancora dentro di me, esplosa o inesplosa. Ancora oggi è presente e potrebbe esplodere. Lo stato ha la responsabilità enorme di non averlo salvato, attraverso la linea della fermezza e decidendo per la non-trattativa. Ho avvertito che eravamo tutti pilotati, noi servitori dello Stato e anche i terroristi. C'erano tante classi politiche che non volevano il compromesso storico».
Barbara Landi
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2012/15-ottobre-2012/caso-moro-parla-artificiere-che-primo-vide-corpo-moro-2112257615662.shtml
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