Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

giovedì 19 maggio 2011

I segreti d'Italia nelle parole di Moro

«Quel cadavere sta ancora lì, malgrado il tempo che passa». Così disse Sandro Pertini il 15 marzo 1979, a dodici mesi dal delitto, riflettendo su quanto l'immagine di Moro morto resisteva nella coscienza pubblica e puntando lo sguardo dal Quirinale verso la via Caetani, nel centro di Roma, dov'era stato trovato il suo corpo. Oggi, dopo altri 32 anni, l'icona dello statista democristiano assassinato è sempre presente e resta per molti una torturante ossessione perché «non si volle farlo scendere dalla croce e salvarlo» - parole, sempre, di Pertini - come lui stesso aveva tentato di rendere possibile in un negoziato condotto personalmente dalla «prigione del popolo» dov'era rinchiuso. Trattativa con i terroristi. Ma soprattutto con i vertici del potere italiano, con i quali aveva cercato di dialogare attraverso un fitto carteggio nei 55 giorni di sequestro.


Delle lettere dello statista si sa ormai molto, grazie anche a una penetrante analisi filologica di Miguel Gotor pubblicata nel 2008, che ha consentito di superare divergenze fuorviate dall'eterno vizio della dietrologia. Lo storico ha adesso completato lo scavo, impegnandosi sul memoriale che Moro stese di proprio pugno per rispondere agli interrogatori delle Brigate rosse. Un documento manoscritto, poi battuto a macchina e fotocopiato dai carcerieri, che fu occultato, censurato, disperso. Un testo al centro di una trama di ricatti e omicidi da cui affiorano raffinate manipolazioni che chiamavano in causa anche la P2. E che ci è arrivato incompleto e, deliberatamente, a rate.
Una prima parte fu diffusa dai terroristi il 10 aprile '78 ed era incentrata sulla figura di Paolo Emilio Taviani, il politico dc che era stato uno dei fondatori di Gladio in Italia, ma già politicamente defilato: un brano autografo di otto pagine carico di allusioni la cui importanza non fu capita, dato che il segreto sulla struttura clandestina attivata dalla Nato negli anni '50, la rete Stay Behind, era conosciuto solo da una decina di persone. La seconda parte (49 fogli dattiloscritti) venne trovata dagli uomini del generale Dalla Chiesa quattro mesi dopo, il 1° ottobre, nel covo br di via Monte Nevoso, a Milano, e divulgata da Palazzo Chigi il 17 ottobre '78. La terza parte fu scoperta nello stesso appartamento tenuto per anni sotto sequestro, il 9 ottobre '90, dietro a un pannello rimosso casualmente da un operaio. E stavolta le pagine, fotocopie dei manoscritti, erano 419.


Un brogliaccio di rivelazioni clamorose e giudizi destabilizzanti, di fronte al quale ci fu subito chi parlò di uno pseudo-Moro, negandone l'autenticità. Gotor, in Il memoriale della Repubblica (Einaudi, pp. 624, 25) fa ora come quando l'operatore di un cinema schiaccia il tasto del roll-back e la pellicola va indietro, per vedere e rivedere una scena. Incrocia i testi e squaderna le cronologie. Sgombra opacità, incoerenze e anomalie. Raffronta atti giudiziari, resoconti parlamentari e giornalistici. Alza il velo su molti enigmi di una lunga catena.
Accertando che sul memoriale hanno lavorato due mani censorie, autonome l'una dall'altra. Ad esempio, il materiale che il gruppo antiterrorismo di Dalla Chiesa consegna al governo nel '78 non è integro: una parte dei dattiloscritti è trattenuta e fatta sparire e intanto viene pilotata una fuga di notizie che costringerà l'esecutivo a rendere pubblico ciò che gli è arrivato. Questo fanno i primi censori, mentre altri senza nome (funzionari dei servizi) nei medesimi giorni si preoccupano di selezionare le pagine, riordinarle secondo una sequenza particolare (successiva, sotto un profilo logico e pratico, a ciò che era affiorato il 1° ottobre '78), nasconderle nella famosa intercapedine in attesa che venga il momento in cui potranno essere «scoperte». Cioè dopo la caduta del muro di Berlino ('89).
Conclusioni alle quali lo storico giunge dopo aver verificato le testimonianze di alcuni «lettori precoci», che dimostrano di aver letto il documento prima del ritrovamento ufficiale. Persone che a volte muoiono misteriosamente (la scia di sangue parte da Mino Pecorelli, distillatore di pericolose anticipazioni sul suo giornale, «Op»). O persone che raccontano cose delle quali non c'è traccia nel fascicolo Moro, e che non potrebbero essere conosciute. Ciò che induce Gotor a ipotizzare, con salde ragioni, l'esistenza di quello che i filologi chiamerebbero ur-memoriale: un testo a tutt'oggi censurato, probabilmente perché contiene informazioni che rimangono insopportabili. Indicibili per sempre, perché riguardano la sicurezza nazionale.


Di che cosa si tratta? Di nodi critici per il sistema. Alcuni ormai metabolizzati, oggi, ma che non potevano esserlo allora. Tra gli altri, le responsabilità del golpe Borghese e della strategia della tensione, le clausole del cosiddetto «lodo» Moro sul conflitto israelo-palestinese in Italia, le attività della Nato e della Cia, i destinatari delle tangenti Italcasse e Lockheed. Questioni tossiche per la politica, a partire da quella che riguardava il principale protagonista dell'eccidio alle Fosse Ardeatine, l'ex ufficiale delle SS Herbert Kappler. Fu fatto fuggire il ferragosto '77 dalla struttura supersegreta nota come «Anello», con una finta evasione dall'ospedale del Celio in base a un accordo con la Germania, che soltanto su quello scambio avrebbe appoggiato la richiesta italiana di un prestito urgente.
Un pozzo di segreti che Gotor esplora con il rigore dello storico (senza concedere nulla alle caricaturali congetture sui Grandi Vecchi, dall'Andreotti-Belzebù al Cossiga con la kappa) e la passione di chi vuole comprendere com'è cominciata una deriva da cui è nata l'antipolitica e sulla quale si è annichilita un'intera generazione. Infatti, al pari del delitto Matteotti, la vicenda Moro è un caso chiuso continuamente da riaprire, per chi voglia ricomporre «l'anatomia del potere italiano» e saggiare il peso della ragion di Stato in un Paese come il nostro. Il potere nella sua proiezione internazionale e non solo considerato badando al cortile di casa, con tutti i suoi attori, Moro in primis, il quale, tutt'altro che plagiato, sospetta d'essere vittima di un'operazione dai forti connotati spionistici e per questo dalla cella conduce una battaglia per rendersi indispensabile. Il potere sotto ricatto nella sua dimensione più tragica e conflittuale, come «fatica e durezza di esercizio della sovranità».


Un grande giallo, ma reale e appassionante anche perché scritto benissimo. Una storia dove vero, verosimile e falso si aggrovigliano e sulla quale pendono sempre diversi interrogativi, cui Gotor offre utili tracce di risposta. Dove sono gli originali del memoriale? Perché i terroristi non lo resero pubblico? Fu oggetto di un patto parallelo tra Br e pezzi dello Stato? Ed esistono nastri o video degli interrogatori? «E ora temo che tutto questo sia disperso, per ricomparire, chissà quando e come». Questo confidava Moro alla moglie Eleonora, in una delle ultime lettere. Un timore e una profezia forse non ancora scaduti.

Marzio Breda
Corriere della Sera

martedì 10 maggio 2011

LA PRIGIONE DI ALDO MORO

Aldo Moro è stato ucciso nel garage in cemento del covo brigatista di Montalcini? E' stato sempre tenuto lì, oppure i luoghi delle prigioni sono stati diversi? Davvero nessuno sapeva dell'esistenza della 'base' di fronte a Villa Bonelli, nel quartiere romano Portuense? (sulla esistenza di una sola prigione per primo espresse molti dubbi il giudice Mastelloni).
Queste domande rappresentano una parte infinitamente piccola, ma assai significativa, della 'grande nebulosa' del caso Moro. Proprio pochissimi giorni fa, infatti, l'ex presidente della Rai, Ettore Bernabei, in una lunga intervista in occasione dei suoi 90 anni, tra un ricordo e l'altro, è tornato sull'argomento (ma parla ad un paese distratto) dicendo senza indugi: «Spesso [la dietrologia] converge con la realtà. Pensi al povero Moro. Io credo ai solerti 007 che hanno ubicato il suo barbaro omicidio tra le mura di Palazzo Caetani»....(L'espresso, 5.5.11)
Recentemente, abbiamo dato conto dell'esistenza di un 'ultimo testimone' (per ora) di questo buco nero della nostra storia: lo abbiamo chiamato signor Mario e ha raccontato alcune cose interessanti sul covo di via Montalcini. Ci disse che lui aveva fatto parte di un gruppo di speciali 'osservatori', un team messo in piedi per monitorare cosa avveniva nella casa di via Montalcini: l'operazione era basata sul supporto logistico e sul coordinamento offerto da uomini di una stazione dei Carabinieri della Capitale. Rimasero a 'guardare' nel buco della serratura per parecchi giorni e furono smobilitati proprio il giorno prima dell'uccisione di Moro.
Se tutto fosse vero, significherebbe che lo Stato sapeva esattamente cosa accadeva ogni minuto di quei 55 giorni.
Intanto, non dimentichiamo che la 'pista' di via Montalcini fu di fatto 'imposta' nell'immaginario collettivo quanto il ministro dell'Interno Rognoni annunciò in modo solenne - durante un suo intervento alla Camera - l'individuazione della prigione di Moro (senza dare l'indirizzo ma si riferiva alle cose dette dal pentito Antonio Savasta). Era il 1 febbraio del 1982 e da allora il nodo della prigione di Moro è apparso sempre come un caso risolto, anche se in sede giudiziaria non è stato possibile scrivere una parola definitiva su questo capitolo. Così è stato quasi inutile chiedersi, ad esempio, perché non si è mai trovato negli archivi del ministero dell'Interno l'appunto di un maresciallo che per primo si recò in via Montalcini ''già in un periodo antecedente il 24 luglio 1978''. Non solo: un teste, all'epoca addetto alla segreteria del direttore dell'Ucigos, già per anni alle dipendenze di Umberto Federico D'Amato, dichiarò - ritrattando successivamente - che il pedinamento di Anna Laura Braghetti, la ''vivandiera'' della ''prigione Br'' e proprietaria dell'appartamento di via Montalcini, cominciò durante il sequestro del Presidente della Dc.
Ma torniamo ai nostri giorni. La testimonianza del signor Mario, in parte resa pubblica su questo sito, ha provocato legittime perplessità di attenti lettori: per questo mi sembra utile tornare sull'argomento ma con altri elementi.
Il racconto del nostro uomo, infatti, ha sollecitato l'attenzione di un ex ragazzo della zona che non ha mai dimenticato quei giorni: «ha mai fatto un sopralluogo in via Montalcini» mi ha chiesto con tono deciso dopo aver letto il racconto del signor Mario e aver rintracciato il mio recapito. Beh, sì conosco la via, gli ho risposto, ma lui va dritto al punto: «venga qui che l'accompagno a fare un giro nei luoghi di cui parla il suo testimone». Aveva ragione, abbiamo fatto insieme una lunga passeggiata che è stata molto istruttiva: «vede, ecco il lampione dove potrebbero aver messo la telecamera», mi ha detto appena dopo esserci presentati. Effettivamente, la posizione dei pali, mai cambiati, e delle lampade è ideale, perché 'guarda' proprio dritto verso la fatidica casa. Ma ecco la sintesi della nostra conversazione. Chiameremo stavolta il nostro uomo il signor Montalcini: un nome di dubbia fantasia ma che rende bene il personaggio. Non deve sembrare strano il rifiuto dei 'testimoni' a fare pubblicamente il loro nome: è normale che da un caso così intrigato si voglia stare fuori. Anche con il signor Montalcini abbiamo fatto le opportune verifiche per capire meglio la sua 'umanità': oggi è un professionista di oltre quarant'anni, molto cordiale, pacato e molto riflessivo. Allora era uno dei tanti ragazzi che gironzolavano nel quartiere che offriva un'enorme zona verde, Villa Bonelli, solo dagli inizi degli anni '80 'area di verde pubblico ' ma allora terra verde, incolta e selvaggia, un paradiso per i ragazzi. Ci siamo incontrati proprio di fronte al numero civico 8, quello dell'appartamento brigatista, e la prima cosa impressionante è che la casa-covo si trova così vicina alla strada, così esposta e poco protetta, che è impossibile credere che sia stata scelta come la prigione super-clandestina di Aldo Moro. Proprio la stessa identica impressione che si ha in via Gradoli, dove si trovava l'altro covo-prigione: anche quella è una via lunga ma molto, molto stretta e la base brigatista si trovava esattamente di fronte all'appartamento a disposizione della Banda della Magliana. E, quando diciamo di fronte, significa a pochissimi metri, proprio la posizione ideale per controllare, come sostiene di aver fatto uno della Banda, Alessandro D'Ortenzi (vedi L'Anello della Repubblica).

D. Signor Montalcini, cosa l'ha colpita della testimonianza di Mario?

R. «Mi sembra che dia risposte a domande che io, i miei familiari e amici ci siamo sempre fatti. Allora avevo poco più di dieci anni e per me ed i miei amici il quartiere era casa nostra. Impossibile che una prigione-covo potesse reggere la clandestinità. Mi ha colpito soprattutto il fatto che era assolutamente possibile, invece, un sistema di controllo direi quasi a cerchi concentrici, oggi diremmo all'interno di una 'zona rossa', anche perché nella villa c'erano vecchie case ridotte a rudere, oggi completamente recuperate, nelle quali si poteva stabilire una base di controllo, proprio come dice il suo testimone. In quei giorni, come ricorda spesso mio padre, e come io stesso ricordo, c'era un furgone fisso in una via Francesco Ripandelli, una strada privata che interseca via Montalcini e dalla quale si poteva controllare proprio il noto appartamento. Allora non ci facevamo caso perché in zona abitavano anche personaggi noti e alti funzionari, ma il furgone non c'era mai stato prima del sequestro, né mai torno dopo».

D. Ma era possibile stabilire basi di ascolto in una delle case diroccate all'interno della villa senza il pericolo di un'invasione da parte di voi ragazzi della zona ? Non eravate un pericolo per un'operazione di quel tipo?

R. «Secondo me no, in realtà c'erano punti inaccessibili dove nessuno di noi andava, anche perché avevamo a disposizione tutta la villa. Proprio di fronte all'appartamento di via Montalcini numero 8 c'era la casa a due piani, oggi una pertinenza del Municipio, nella quale senz'altro era possibile stabilire un punto di indisturbato d'osservazione nella parte superiore. E poi in quel momento in particolare, a metà del 1978, la zona era una specie di cantiere, alcuni condomini erano in fase di costruzione e c'erano grandi lavori di ristrutturazione dell'Italgas. C'erano fili ovunque, operai che andavo e venivano nelle case e sicuramente potevano essere mimetizzati fili di telecamere o altre apparecchiature (delle quali parla il signor Mario), visto che all'epoca non c'erano sistemi wi-fi o di trasmissioni satellitari».

D. Comunque, era una zona tranquilla e questo è quello che conta quando si deve scegliere dove sistemare un covo...

R. «Era tranquilla per noi, per giocare liberamente per strada insieme ai nostri amici, tra i quali c'erano figli di funzionari dello Stato e di gente meno raccomandabile. Io giocavano spesso con il figlio di Franco Giuseppucci, il 'negro', perché tra queste vie è noto che i membri della Banda della Magliaia venivano a scegliere i loro appartamenti: più a valle, appunto nel quartiere della Magliana, facevano affari di vario tipo e qui ci abitavano, come è stato ricordato da alcuni attenti osservatori. A via Gaetano Fuggetta 59, cioè a 120 passi da via Montalcini, c'era Danilo Abbruciati, Amelio Fabiani, Antonio Mancini; in via Lupatelli 82, 230 passi dalla prigione del popolo, c'era Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135, 150 passi, Ernesto Diotallevi, segretario del finanziere piduista Carboni».

D. Dunque intende dire che era tranquilla ed anche molto ben protetta?

R. «Era abitata da famiglie del ceto medio, come la mia, ma anche da persone molto diverse, comunque il punto è che lì nulla avveniva a caso. E poi c'è ancora un fatto....C'era un intero palazzo di proprietà dei carabinieri proprio in via Montalcini, accanto a quello della "prigione". Accanto significa a tre metri. Lo chiamavamo la 'palazzina dei carabinieri' e aveva un frequente ricambio di inquilini».

D. Il signor Mario dice che lui e i suoi compagni erano stati sistemati in un appartamento che si trovava nel palazzo proprio dopo quello del civico 8..

R. «Sì, potrebbero coincidere...Comunque, era una zona 'infiltrata', nel senso abitativo, dalla banda della Magliana, anche se abitata da molti vip, diremmo oggi. Io andavo a scuola con il figlio di un importante magistrato, ma c'erano avvocati e politici piuttosto in vista».

D. Nel 1978? Ne è sicuro?

R. «Altro che! Guardi, se il caso Moro è rimasto nella coscienza collettiva del paese, si figuri quanti ricordi e quanti pensieri suscita a noi che siamo nati e cresciuti proprio nella via ritenuta 'la prigione del popolo'. Dopo aver letto il racconto del signor Mario, tanti ricordi sono tornati a galla e li ho condivisi con la mia famiglia e con gli amici con cui sono cresciuto. Deve sapere che all'epoca ci fu una grande mobilitazione di noi residenti: si costituì il Comitato per la difesa di Villa Bonelli che, grazie alla lotta dei cittadini e al sostegno delle istituzioni di allora, oggi è area pubblica - il grande sindaco Petroselli venne ad inaugurare l'area proprio pochi giorni prima della sua prematura scomparsa. Ma nei primissimi anni '80, la battaglia fu dura anche perché tra i contendenti c'erano un importante uomo politico. Ma sono passati troppi anni e i protagonisti di quella stagione non sono più qui e alcuni sono andati via per sempre».

di Stefania Limiti
8 maggio 2011

sabato 7 maggio 2011

Chi voleva Moro morto. Il film con l'Unità

Fondo nero, parte la registrazione, un brigatista avvisa al telefono il professor Franco Tritto che Moro è morto e dov’è il cadavere. Il 9 maggio 1978 il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma mise una pietra tombale sulle possibilità di vedere il Partito comunista italiano al governo e su chissà quali altri sviluppi. L’onorevole democristiano che aveva ipotizzato il “compromesso storico”, il politico rapito in via Fani il 16 marzo dalle Brigate Rosse, in 55 giorni non era stato salvato. Troppi non avevano voluto salvarlo. “Sequestro Moro, sentenza di morte” è il film inchiesta in edicola con l'Unità a partire da lunedì 9 maggio, a 7,90 euro più il quotidiano. Nel 33esimo anniversario dal ritrovamento del cadavere in una Renault 4 rossa a poca distanza dalle sedi della Dc e del Pd ancora oggi siamo lontani dalla verità.

Più che una ricostruzione dei fatti, con la regia del regista-giornalista Franco Fracassi e una sceneggiatura serrata “Sequestro Moro” scava, racconta le ombre, perché troppi non volevano salvare la vita dell’onorevole. Con una sceneggiatura incalzante, il film si affida a interviste a chi non si è fermato al piano delle apparenze e impagina ricostruzioni animate. Come quella dell’attacco terrorista la mattina in via Fani: in bianco e nero, nitida, tagliente, l’animazione mostra chiaramente come l’auto di Moro fu vittima di un agguato in cui non c’erano solo i brigatisti, che gli oltre 90 colpi che uccisero la scorta furono sparati anche da qualcun altro mai scoperto, come a quell’incrocio stazionasse un uomo misterioso la cui identità è a tutt’oggi sconosciuta. Servizi segreti italiani e stranieri, intrighi, parte della stampa diretta in quel periodo da personaggi legati alla P2, chi erano davvero i brigatisti e le brigatiste, il film scava e permette di farsi un’opinione, un’idea, di mantenere la coscienza vigile.

“Moro fu rapito per non essere salvato – osserva Fracassi, già autore del documentario “Le Dame e il Cavaliere”, di inchieste e reportage – Da quando fu progettato il suo rapimento era implicito che non si sarebbe salvato, nessuno lo voleva vivo. E da un certo momento, quando arrivò il falso comunicato fatto da che indicava il lago della Duchessa, nemmeno le Br lo volevano vivo: capirono che non era più merce di scambio. E quel comunicato lo fecero proprio per questa ragione Servizi segreti italiani e americani”. Secondo il regista-giornalista, troppi lavorarono perché Moro tornasse cadavere: “Non lo volevano vivo i nostri servizi, quelli americani, tedeschi, russi, il Mossad, parte dei nostri politici. Gli unici che hanno provato a far qualcosa sono stati la banda della Magliana, Cosa nostra e la camorra, che è la follia più totale. Da questo documentario emergono tante cose: come il fatto che i criminali furono fermati dai servizi”.

Un coacervo di manovre e interessi che oltrepassava i confini. Allora il mondo era diviso tra Occidente e Oriente, la Cortina di ferro pesava. “Il sequestro è stato un affare internazionale, non solo italiano. Moro voleva dire il Pci al governo – ricorda il regista – Questo non lo volevano gli americani ma nemmeno i sovietici perché significava modificare gli equilibri e temevano che nell'Europa dell'est allora molti avrebbero potuto fare rivendicazioni. Né dimentichiamo che il Pci aveva già rotto con Mosca e che Berlinguer aveva subito un attentato a Sofia. Gli israeliani non volevano quel governo perché Moro era filo-arabo: quindi tantissimi in giro per il mondo avevano interesse al rapimento e alla sua morte”.

Il film affronta una delle questioni cruciali e mai chiarite. Come la delegittimazione della figura di Moro rapito, con chi diceva “non è più lui”. I misteri su quanto del suo memoriale è sparito. E le Br. Chi erano i brigatisti? Erano diretti e/o lavorarono al servizio di qualcuno? Infinite stranezze non spiegano come mai non furono trovati. Come mai la polizia non entrò mai in un covo dove Moro era prigioniero pur bussando alla porta. “Br eterodirette? Il loro capo, o almeno definito tale, Moretti viveva in un palazzo dei servizi segreti in una via dei servizi, via Gradoli, veniva da un gruppo di persone che erano dei servizi segreti. Era un agente dei servizi cecoslovacchi? Un agente doppiogiochista tra est e ovest?” Fracassi non crede a Moretti e brigate rosse autonome. “Sostenne di uccidere moro, un agente non decide per sé ma esegue ciò che gli viene ordinato”. Il film filtra ricostruzioni e ipotesi già formulate. “Secondo i magistrati non c'era un solo brigatista che non fosse anche agente di qualche servizio segreto straniero, secondo le br e altri quei terroristi erano invece 'ingenui', diciamo così. Nel film cerco di mantenere una posizione equilibrata perché esiste un margine di dubbio, per quanto per me questo margine di dubbio sia risibile”.

“Sequestro Moro” imbocca una strada diversa dal documentario storico. Non mostra immagini d’archivio né di repertorio. Animazioni, fumetti, impaginazioni grafiche stile reparti d’indagine scientifici … “Abbiamo voluto fare un documento didattico perché tanta gente non sa, abbiamo pensato ai giovani con un taglio quasi da cartoni animati, in certi passaggi guardando a Matrix, anche se siamo lontani anni luce dal film. Abbiamo cercato di dare un ritmo forte a un film fatto quasi esclusivamente di interviste”. Gli intervistati sono il giudice e scrittore Giancarlo De Cataldo; Rosario Priore e Ferdinando Imposimato, giudici istruttori del processo Moro; Sergio Flamigni, membro Commissione parlamentare d’inchiesta Moro; Ansoino Andreassi, ex funzionario della Digos; Giovanni Pellegrino, Presidente Commissione parlamentare stragi; i giornalisti Giovanni Fasanella (autore del libro “Intrigo Internazionale”), Sandro Provvisionato (autore del libro “Doveva Morire”), Annibale Paloscia (capo-redattore cronaca dell’agenzia Ansa nel 1978), Philip Willan (autore del libro “I burattinai”).

“Sequestro Moro” segue, tra i film-documento distribuiti da l’Unità, “Sangue e cemento”, sul terremoto dell’Aquila (ovvero sulla mala-costruzione di edifici franati), arriveranno “Le stigmate e il denaro Padre Pio, business e miracoli” a giugno e “G Gate” sul G8 di Genova a luglio. Hanno prodotto questo film sul caso Moro Telemaco, Thalia Group, Netlords, Eidos Communication.
6 maggio 2011