Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

mercoledì 17 dicembre 2008

Moro è caduto per aver troppo sentito e troppo osato

Nel 30° anniversario dell'assassinio di Aldo Moro, Agostino Saviano pubblica, nel suo "Viaggio nella memoria", una lettera inedita del futuro statista che lascia presagire il suo tragico destino. Nel libro anche un commento di Agostino Spataro che rievoca quei giorni terribili dall'interno della Camera dei Deputati.

Nelle avvincenti pagine autobiografiche del suo "Viaggio nella memoria" Agostino Saviano rievoca taluni episodi accadutigli in un particolare momento della sua lunga vita, nel vivo del secondo conflitto mondiale.Un viaggio a ritroso dentro una guerra tremenda ai cui esiti erano affidate da un lato le sorti della dittatura nazi-fascista e dal lato avverso le speranze di dignità dei popoli. Una scommessa risolutiva in cui la posta erano la libertà e il suo contrario.Una vicenda umana, la sua, comune a tantissimi altri commilitoni, a milioni d'europei che vissero la guerra chi al fronte e chi in città e paesi bombardati e annichiliti dalla fame e dalle violenze di ogni tipo.
Insomma, un bel tratto di strada nel solco di una grande tragedia che portò Saviano dalla sua Arzano alle aspre montagne d'Albania, dalla Puglia alle sterminate steppe della Russia fra le vittime e i sopravvissuti della disastrosa spedizione militare italiana.
Lungo questo tormentato percorso incontrerà tanta gente. Alcuni cadranno sul campo, molti si sperderanno per il mondo, taluni affioreranno dal fantastico gioco dei ricordi.E fra quest'ultimi, il primo della lista è certamente il giovane sergente-allievo Aldo Moro che l'Autore incontrò, casualmente, in terra di Bari.
Con Moro, che era già presidente nazionale della Fuci, Saviano spesso parlò delle libertà negate e delle smisurate ambizioni imperialiste del fascismo. Posizioni coraggiose, purtroppo isolate, che attireranno contro Saviano la dura reazione del sistema. Fra i due si stabilì una comunione di sentimenti antifascisti a quel tempo molto rari e rischiosi, soprattutto all'interno delle forze armate.
Sentimenti ed umori che, sfidando le occhiute maglie della censura, sono giunti a noi in forma d'epistola che Saviano ha gelosamente conservato e che oggi ci rende come il dono più pregiato di questo suo libro di memorie.
Al solo sentir il fratello Franco parlare di una lettera inedita di Aldo Moro ebbi come un sussulto, pensando a ben altre lettere che lo statista scrisse durante quei terribili 55 giorni di prigionia, prima di essere assassinato dalle Brigate rosse. Si tratta, invece, di corrispondenza fra commilitoni che la guerra aveva allontanato. Una lettera del settembre 1942, sincera ed amichevole, dalla quale traspare il disagio, l'avversione contro una guerra assurda e contro la dittatura che l'aveva provocata."Alla tua anima, sconvolta, smarrita e desolata per aver troppo capito - scrive Moro a Saviano- ho osato avvicinare la mia che conosceva uno stesso dolore..." Un passaggio molto significativo nel quale, oltre al richiamo ad un comune sentire, si può apprezzare il senso di una rara sensibilità politica e morale che quando non è temperata dall'autocensura può sfociare nel dramma.Giacché il "troppo capire" può diventare un azzardo, quando capir non si deve, né troppo né poco, ma solo obbedire ed eseguire! Ieri come oggi. Specie se il troppo capire ti spinge ad osare oltre certi limiti.
Forse un giorno sapremo, o sapranno, la verità. La verità sul caso Moro è ancora lontana. Un caso o un affaire come lo definì Leonardo Sciascia col quale più volte ebbi a parlare quando veniva a Montecitorio.Lo scrittore aveva ragione: quel tragico evento non poteva essere ridotto ad un "caso", perché caso non era, ma un delitto politico complesso, ideato e programmato in tutti i suoi aspetti militari e politici.
Forse, un giorno, sapremo (o sapranno) tutta la verità sull'affaire Moro. Tuttavia, credo si possa senz'altro affermare che Egli è caduto per avere troppo capito e troppo osato.
E qui mi fermo, perché desidero aggiungere al ricordo di Agostino Saviano alcune mie impressioni sull'atmosfera che si respirava in Parlamento durante quei 55 giorni e sulla figura e sul ruolo dell'on. Aldo Moro col quale- chiarisco- non ho avuto alcuna relazione diretta, ma solo qualche scambio di saluti.Confesso che io, approdato giovanissimo in Parlamento nel 1976 sull'onda della clamorosa avanzata elettorale del Pci, percepivo il gruppo dirigente della Dc come un blocco dominante composito, talvolta anche rissoso, che, al bisogno, sapeva far quadrato a difesa di un potere gretto, fine a se stesso che si voleva conservare al governo, in eterno.Un punto di vista piuttosto diffuso, giacché un po' questo era il volto del potere democristiano, soprattutto in Sicilia e nel meridione.
Erano quelli i tempi del "governo dell'astensione" (del Pci). Una formula per molti di noi deludente, indigeribile anche perché basata, sostanzialmente, solo su un'intesa riservata, quasi sulla parola, fra Berlinguer e Moro.
Quell'accordo, tuttavia, produsse un clima di rasserenamento, di relativa fiducia tra i partiti, soprattutto fra Dc e Pci che insieme disponevano di quasi l'80% della rappresentanza parlamentare. Insieme i due partiti rappresentavano l'anima popolare della società italiana, una vera superpotenza politica capace di riformare finalmente il Paese. E le riforme- si sa- suscitano grandi speranze ma anche grandi paure in chi se ne sente minacciato.Preoccupazioni che si propagarono anche nel cuore dei principali centri decisionali internazionali.Saranno state la sorpresa e/o la paura del cambiamento o altro, fatto sta che taluni settori della classe dirigente italiana si mostrarono poco convinti, quando non ostili, nell'affrontare un passaggio così innovativo.
Cercai di capire questo travaglio. Ogni occasione era buona per scandagliare atteggiamenti e comportamenti della classe dirigente. Una mattina, partecipando ad una seduta della commissione esteri della Camera, mi trovai davanti tutti i segretari e i presidenti dei partiti, di governo e d'opposizione: Berlinguer, Craxi, Zaccagnini, Rumor, Piccoli, De Martino, Spinelli, Ugo La Malfa, Pajetta, La Pira, Malagodi, Tanassi, Giolitti, Colombo, Forlani, Aldo Moro... Li scrutai da vicino, ad uno ad uno. Osservai i loro sguardi, i loro tic, i movimenti minimi del viso, delle mani. Volevo capire cosa si nascondesse dietro quei volti formali, impenetrabili. Arroganza, paura, inquietudine, solitudine? Insomma, la prospettiva che s'andava ad aprire come e quanto influenzava i loro comportamenti, le loro stesse personalità?L'esame fu necessariamente sommario. A parte La Pira, che già poteva considerarsi avviato verso la beatitudine celeste, mi colpirono soprattutto Berlinguer e Moro per la loro espressione sofferta, quasi mesta. Era un po' il loro carattere, ma - credo- vi influisse la consapevolezza del peso delle responsabilità che s'erano assunte in quel frangente.
In quel consesso di capi-partito e di corrente vidi le stimmate di un potere fatto di voti e presidenze. Moro e Berlinguer, invece, m'apparvero spogli di poteri siffatti e perciò leader autentici che fondavano il loro carisma sulla forza delle idee e dell'etica.
Un solo esempio. Aldo Moro capeggiava una fra le più piccole correnti democristiane, eppure era stato l'architetto delle grandi svolte politiche della "balena bianca" ed ora stava realizzando la sua ultima, più impegnativa fatica per il completamento del disegno democratico tracciato dalla Costituzione. Glielo hanno impedito ricorrendo alla strage, ad un delitto atroce.
Quella mattina alla Camera
La notizia della strage e del sequestro giunse veloce e terribile a Montecitorio di prima mattina. Ricordo lo smarrimento di capi e gregari democristiani, il nostro sgomento. Nel "transatlantico" le urla di pochi soverchiavano i silenzi atterriti di tanti.
Antonello Trombadori, deputato ed ex gappista romano, correva come un pazzo avanti e indietro gridando "al muro, al muro". Perfino un uomo misurato come Ugo La Malfa giunse ad invocare in Aula la pena di morte.
Il giorno non fu scelto a caso: quel 16 marzo 1978 la Camera era stata convocata per votare la fiducia al quarto governo Andreotti. Per la prima volta, dopo trent'anni, il Pci entrava nella maggioranza anche se non rappresentato nel governo. Un altro voto difficile, per noi, ma necessario per realizzare il secondo passaggio dell'intesa strategica fra Moro e Berlinguer.
I nemici occulti di tale strategia decisero di fermarla al secondo passaggio, giacché al terzo, che avrebbe visto i comunisti al governo, sarebbe stato altamente rischioso.
Un disegno funesto, devastante, ideato da forze potenti, tutt'ora ignote, ben più potenti delle Br che l'hanno eseguito. Almeno così in molti leggemmo la vicenda sulla quale pesano ancora tante stranezze operative e alcuni interrogativi riguardanti la sua gestione politica, per altro molto riservata ed accentrata.
Aldo Moro fu colpito in quanto unico leader in grado di traghettare la Dc verso questa svolta decisiva. Salvando lui si sarebbe dovuto salvare anche il progetto politico di cui era co-protagonista, ufficialmente condiviso da circa il 90% delle forze parlamentari.
Perché, dunque, non si tentarono tutte le possibili vie di salvezza? La cosiddetta "fermezza", anche se invocata in buona fede, non era in fondo una condanna a morte del sequestrato? Interrogativi angoscianti che in quei giorni convulsi non trovarono risposte esaurienti.
Perciò, mi parve quantomeno illogico respingere la "trattativa" che avrebbe consentito, se non altro, di scoprire le carte dei sequestratori. Se fosse stato un bluff, come molti temevano, le Br avrebbero confermato il diffuso sospetto di essere al servizio di un disegno più grande di loro, mirato soltanto all'eliminazione fisica dell'on. Aldo Moro.
Purtroppo, le cose andarono per un altro verso. Moro verrà barbaramente assassinato. Il danno fu grande per la sua famiglia e per la democrazia italiana che, d'allora, appare sempre più contratta, fiacca, vacillante.
Concludo con un passaggio illuminante, pedagogico direi, contenuto nella lettera a Saviano, in cui Moro conferisce un senso altissimo al sacrificio umano "mi pare che nella vita per fare qualcosa di grande e di buono, e perciò di duraturo, occorra saper pagare di persona, facendosi attori e veri partecipi poi del grande dramma."
Parole dolenti nelle quali si possono intravedere i segni premonitori del suo tragico destino.

Agostino Saviano"VIAGGIO NELLA MEMORIA"(a cura di Francesco Saviano)prefazione di Rosa Aura SeverinoEdizioni Arte Stampa- Montecatini, ottobre 2008

giovedì 4 dicembre 2008

Moro, la DC e il dialogo sconfitto

Gli Anni 2000 sono risultati così diversi dagli Anni 1900 che di questi si perde la memoria. In un tempo in cui il presente è tutto, il futuro è un problema, il passato non è più un maestro di vita, ciò che è stato perde i suoi diritti. Il tempo comincia con l’oggi e del «doman non v’è certezza». È perciò un atto meritorio dell’Università Luiss di Roma dedicare domani un convegno alla figura più drammatica dell’Italia nella guerra fredda: Aldo Moro. Di guerra fredda morì, perché tentò di dare forma politica al Paese, alla maggioranza italiana di allora, composta da cattolici e da comunisti. Dai «due vincitori» delle elezioni, come disse a Benevento dopo il voto del ’76.

Ma il caso Moro ha, per la sua potenza simbolica, un fascino particolare. È un dramma perfetto: personale, familiare, di sinistra, politico, istituzionale. Moro cercò di creare negli interstizi della guerra fredda un’eccezione italiana in cui un partito comunista, il più grande dell’Europa occidentale, accettava con il suo segretario la tesi che il socialismo si poteva costruire all’ombra della Nato. Forse era troppo ardito sperare che il partito di Togliatti rompesse i vincoli con l’Urss, troppo radicato il mito del «socialismo realizzato» da noi: un Paese credente, in cui il comunismo, assunta la forma d’una religione popolare, si conciliava con il culto della Madonna e dei santi. Gramsci aveva voluto proprio questo. L’Italia era stata un’eccezione ai tempi della guerra fredda perché il Paese è sede del Papato e Roma intendeva parlare anche col potere sovietico e non diventare un avamposto dell’Occidente. Ma l’ipotesi che la sede romana del cattolicesimo fosse così forte da essere una tale eccezione, era un concetto troppo ardito. Sia vera o falsa la tesi di Giovanni Galloni che vede nell’assassinio di Moro la vendetta di Kissinger, è certo che le Br eseguirono su lui una sentenza che aveva l’approvazione di Washington e di Mosca.

La storia di Moro non è inclusa nella storia Dc se non in parte. La sua vita politica e anche quella nel carcere Br fu tesa a mostrare che l’idea del dialogo, con cui Paolo VI affrontava il postconcilio, era politicamente praticabile. Moro non intese il dialogo come cedimento: evitò l’errore di Dossetti e Fanfani di fare della sinistra Dc la chiave del rapporto col Psi, poi col Pci. Anche le lettere dal carcere sono la testimonianza di una vita politica e del dialogo come principio che l’ispirava. La sua coerenza nell’estrema sventura fu intesa come debolezza. Di una cosa Moro volle essere garante: che tutta la Dc fosse presente nei governi che nascevano con una maggioranza prima col Psi e poi col Pci. Il criterio che guidò Moro nel dialogo fu l’unità della Dc. Ma il dialogo era una categoria politica sufficiente? Una scelta papale che interpretava il Vaticano II aveva la forza di diventare un fatto spirituale e politico in Italia? La vicenda di Moro ci dice di no. Le sorti di cattolici e comunisti si bipartirono definitivamente dopo la sua morte.

Ricordo che la prima lettera di Moro fu indirizzata al ministro dell’Interno, Cossiga, e che vi era il chiaro appello a non farsi incantare dalla «ragion di Stato». Fu per questa parola che, chiamato dal direttore del Secolo XIX Afeltra cui la lettera era giunta a dare un consiglio sulla sua autenticità e quindi sulla sua pubblicazione, risposi che il termine «ragion di Stato» era della penna di Moro. Sua la tesi che i conflitti presenti nella società non fossero conflitti di Stati, ma conflitti nei popoli e che, per salvare la democrazia, occorreva usare uno strumento che desse dignità politica alle parti coinvolte, anche se non erano governi in esilio o forme istituzionali o paraistituzionali. Il dialogo teorizzato da Paolo VI come forma di presenza della Chiesa nelle modernità diveniva per Moro uno strumento politico di cui non solo la comunità internazionale, ma nessun singolo Stato era in grado di fare a meno. La ragione di rivoluzione è la più radicale delle ragioni di Stato: e le implacabili Br non risposero all’atto solenne con cui Paolo VI cercò di coinvolgerle nel dialogo da esse cercato con le istituzioni mediante l’appello diretto ai brigatisti di salvare Aldo Moro «senza condizioni», cioè senza trattativa delle Br con lo Stato. Le Br non consideravano la Chiesa come potere, volevano il riconoscimento del potere reale: quello dello Stato italiano che non ebbero.

Gianni Baget Bozzo
www.lastampa.it
3-12-2008

sabato 29 novembre 2008

CINEMA: FILM SU CASO MORO DI GRIMALDI AL NOIR IN FESTIVAL

Il film sul caso Moro di Aurelio Grimaldi "Se sarà luce sarà bellissimo" sarà uno dei film in concorso nella 18/a edizione del Courmayeur Noir in Festival, in programma dal 4 al 10 dicembre 2008, in Valle d'Aosta.

giovedì 20 novembre 2008

Divorzio, da archivi la conferma del ruolo giocato da Aldo Moro

Nell’istituzione del divorzio in Italia fondamentale fu il ruolo svolto da Aldo Moro. La conferma giunge dalle carte dello statista democristiano depositate all’Archivio centrale dello Stato di Roma di cui oggi Repubblica riporta alcuni stralci. Abile nel barcamenarsi tra la difesa della laicità delle istituzioni repubblicane, l’autonomia del Parlamento italiano, la sopravvivenza del centrosinistra e le ingerenze vaticane, Moro si adoperò in maniera decisiva in tutte le travagliate fasi dell’iter legislativo compiuto tra il 1965 ed il 1970 dal progetto di legge Fortuna. Furono soprattutto le interferenze della Santa Sede a costituire il principale ostacolo all’introduzione del divorzio nella legge italiana. Interferenze che rischiarono di sfociare in una vera e propria crisi diplomatica, come testimonia la lettera, ora venuta alla luce, che il 23 gennaio 1967 il capo dello Stato Giuseppe Saragat inviò a Moro presidente del Consiglio. Quel giorno Papa Paolo VI, in una allocuzione rivolta ai componenti della Sacra Romana Rota, aveva lanciato un duro attacco contro quei politici che “sostengono non essere contraria alla Costituzione una proposta di legge per l'introduzione del divorzio nella legge italiana”. Saragat si mosse immediatamente e scrisse a Moro intimandolo a intervenire perché, sottolineò il capo dello Stato nella missiva, “gli apprezzamenti e i giudizi” del pontefice, “riferendosi a atti del parlamento nazionale, rappresentano una non consentita ingerenza nella vita dello Stato”.

La prima ufficiale presa di posizione della Santa Sede, riguardo la proposta di legge Fortuna-Baslini, è datata 22 agosto 1966. Attraverso una nota inviata all’ambasciatore italiano, la Segreteria di Stato vaticana espresse, infatti, le “gravi apprensioni della Santa Sede” per un disegno di legge che, se fosse stato approvato, avrebbe provocato non solo un decadimento dei costumi e il disordine sociale, ma soprattutto avrebbe rappresentato un’aperta violazione del Concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa. Ancor più esplicita fu la seconda nota inviata dal Vaticano il 16 febbraio 1967 nella quale veniva sottolineato che “è superfluo rilevare che eventuali provvedimenti legislativi i quali pretendessero di dichiarare sciolto un matrimonio canonico, costituirebbero una violazione degli obblighi che lo Stato italiano ha assunto verso la Santa Sede”. Secondo il Vaticano, insomma, prima di una eventuale approvazione parlamentare della proposta Fortuna, si sarebbe dovuto rivedere l’articolo 34 del Concordato che regolava la materia del matrimonio. Se il Governo italiano avesse seguito questa strada, l’iter legislativo della proposta Fortuna-Baslini si sarebbe irrimediabilmente arenato in attesa di nuovi accordi diplomatici tra Italia e Santa Sede e, difficilmente, si sarebbe giunti alla sua approvazione.

Invece il gabinetto presieduto da Aldo Moro, forte della decisione presa dalla commissione Affari costituzionali della Camera, che proprio in quei mesi si pronunciò a favore della costituzionalità della proposta di legge Fortuna, tenne nascoste al Parlamento le due note vaticane e si pronunciò, nell’ottobre 1967, a favore solamente di una generica riconsiderazione di “talune clausole del Concordato in rapporto alla evoluzione dei tempi e allo sviluppo della vita democratica”. Salvatosi dalle ingerenze vaticane, il progetto di legge sul divorzio, modificatosi nel frattempo in proposta Fortuna-Baslini, venne approvato dalla Camera il 28 novembre 1969 durante il secondo ministero Rumor. Entrato in crisi questo gabinetto nel febbraio successivo, si aprì una grave e lunga crisi parlamentare. Il 30 gennaio 1970 la Santa Sede inoltrò una nuova nota di protesta, la terza, all’ambasciata italiana. Stavolta, però, la diplomazia vaticana rese pubblico il documento, suscitando le ire delle forze laiche che stigmatizzarono l’intervento del Vaticano nel pieno di una crisi di governo che si stava risolvendo a favore di una ricomposizione del centro-sinistra. Nella nota la Santa Sede tornò a sostenere che il divorzio dei matrimoni concordatari non poteva essere discusso e votato dal Parlamento perché avrebbe dovuto essere oggetto di un nuovo negoziato tra Stato e Chiesa. Per cercare di uscire dalla crisi di governo, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, affidò il 3 marzo 1970 il preincarico a Moro, il quale si assunse l’onere di ricucire i rapporti tra la Dc, d’accordo con le tesi vaticane, e i partiti laici, difensori della aconfessionalità dello Stato.

Secondo Moro l’unica via d’uscita sarebbe stata quella di tenere distinti i due problemi: da una parte far proseguire l’iter parlamentare della Fortuna-Baslini al Senato, dall’altra avviare negoziati con la Santa Sede per rivedere il Concordato in alcuni punti. In pochi giorni Moro si ritrovò isolato: innanzitutto Paolo VI gli rifiutò un’udienza più volte richiestagli, quindi Civiltà Cattolica ribadì il 7 marzo la tesi della sospensione al Senato del dibattito sul divorzio fino alla revisione del Concordato e, per ultimo, la stessa Democrazia cristiana impedì a Moro di effettuare un ultimo tentativo per risolvere la crisi. Così commentò l’accaduto Loris Fortuna: “La posizione di Moro salvaguardava l’autonomia e la sovranità dello Stato, offriva un corretto rapporto di parità e non di sudditanza nei confronti del Vaticano. L’ultimatum del Vaticano è stato accettato. Abbiamo il partito dello straniero e ad esso non si possono affidare le sorti della Repubblica”.

Che il Vaticano e la Dc avessero voluto affondare personalmente Moro, più che il progetto sul divorzio da lui elaborato, lo dimostrò il fatto che il terzo governo Rumor, che nacque da quella lunga crisi, si comportò sull’argomento nella stessa maniera suggerita da Moro durante il suo incarico esplorativo: prosecuzione della Fortuna-Baslini al Senato e, parallelamente, discussione con la Santa Sede per la revisione del Concordato senza però che queste trattative comportassero ingerenze ecclesiastiche nella discussione al Senato sulla legge sul divorzio. Nel caso la proposta Fortuna-Baslini fosse divenuta legge, gli elettori avrebbero potuto esprimersi sulla decisione del Parlamento attraverso lo strumento del referendum abrogativo. Neppure l’ennesima dura presa di posizione antidivorzista di Papa Paolo VI, nel giugno 1970, che provocò la crisi del governo Rumor e la nascita del gabinetto Colombo, fermò l’iter parlamentare del provvedimento.

Gli ultimi ostacoli frappostisi alla trasformazione in legge della Fortuna-Baslini, riguardarono una serie di emendamenti presentati dalla Dc nell’ottobre 1970, che causarono una spaccatura nell’area divorzista tra la Lega italiana per il divorzio (Lid) di Marco Pannella e lo stesso Loris Fortuna. Mentre quest’ultimo si disse favorevole a concedere qualcosa alla Democrazia cristiana, pur di non far naufragare l’intero pacchetto di legge, il leader radicale si dimise dalla Lid ribadendo la sua intransigente opposizione a qualsiasi trattativa. La vittoria della linea moderata nello schieramento divorzista da una parte, e la pressione esercitata dall’altra da alcuni esponenti democristiani, tra cui Moro, sul proprio gruppo parlamentare per porre fine al clima da crociata che si stava generando nel Parlamento e nel Paese, diedero il via libera definitivo all’approvazione della proposta Fortuna-Baslini che divenne legge il 1 dicembre 1970.

Fonte
www.ilvelino.it

sabato 8 novembre 2008

Andreotti vs Cossiga: chi mente?

Riporto questa nota dell'agenzia di stampa www.ilvelino.it nella quale Andreotti nega la notizia fatta circolare da Cossiga sull'esistenza del cd. lodo Moro, un accordo segreto con i terroristi palestinesi di cui abbiamo avuto modo di parlare. Una cosa è certa: uno dei due mente. Uno dei due nasconde qualcosa.

Intervistato da Andrea Romano per i “Faccia a faccia” di Radio3, il senatore a vita Giulio Andreotti smentisce l’esistenza del cosiddetto “lodo Moro” - l’accordo, patrocinato da Aldo Moro, che avrebbe garantito ai terroristi palestinesi libertà di circolazione sul territorio italiano, in cambio dell’immunità del nostro paese dagli attentati. La tesi - recentemente rilanciata da un altro senatore a vita, Francesco Cossiga - è bollata da Andreotti come una “fantasia volutamente messa in giro”. Dice l’ex premier a Romano: “Io ero dentro il sistema, se fosse stato vero l’avrei saputo - non l’avrei condiviso ma l’avrei saputo”. Dunque si tratta di una voce che “assolutamente non ha fondamento”. Andreotti rivendica i meriti dell’andreottismo in politica estera anche sotto il profilo dei rapporti col movimento palestinese. Il cui scivolamento verso l’estremismo - afferma Andreotti - fu contenuto proprio grazie all’atteggiamento dialogante del governo italiano. Il senatore a vita chiosa: “Non è che uno potesse convertire i palestinesi in figli di Maria”. Tuttavia, i palestinesi “avevano anche ragione su una cosa essenziale, quella di poter avere uno Stato palestinese. L’errore era stato commesso quando si era creato lo Stato di Israele e poi l’autorità palestinese, senza spiegare che cosa volesse dire, senza dare la sicurezza che fosse uno Stato”.

Le vicende giudiziarie di Andreotti possono essere messe in relazione con il fatto che l’ex premier avesse qualche nemico oltreoceano? Romano ricorda che proprio Andreotti in passato affermò di non “poter escludere” che “qualcuno dei servizi segreti americani avesse potuto “mettere il becco” in quelle vicende. Il senatore a vita risponde: “Persone che non sono obiettive ma un po’ faziose sospettavano che io avessi rapporti correnti anche con i comunisti, che questo potesse essere un po’ un sintomo di un intiepidimento e quasi di una mancata sintonia con loro. I faziosi sono sempre un guaio, purtroppo esistono e nessuno li riuscirà mai a estirpare. Ero visto, non voglio dire con sospetto, ma con una certa cautela”. Il filo della dietrologia conduce al tema di Tangentopoli e del ruolo che i servizi segreti potrebbero aver svolto al riguardo. Romano ricorda le novità provenienti da Tripoli sull’avvertimento dato da Bettino Craxi a Muammar Gheddafi in merito a un imminente bombardamento statunitense contro la Libia. All’origine di Tangentopoli c’è forse l’irritazione americana per quella soffiata? “Può essere”, replica Andreotti. Che aggiunge: “Certamente intorno a Tangentopoli si creò tutta una serie di motivi polemici e anche molte cose che non stanno né in cielo né in terra. Del resto certamente non viviamo nel paradiso terrestre”.

venerdì 10 ottobre 2008

Moro fu davvero rapito dalle BR? Il coinvolgimento Massonico

Agguato di via Fani.

Nonostante trent’anni e numerosi processi dell’agguato di Via Fani, ancora oggi, non si è riusciti a ricostruire con esattezza le modalità dell’attacco, né quante persone vi parteciparono.

Sono circa le 9 del mattino del 16 marzo 1978. La Fiat 130 dell’On. Moro e l’Alfetta di scorta che percorrono via Trionfale svoltano in via Fani. Fanno pochi metri quando all’altezza dell’incrocio con via Stresa le due auto vengono bloccate da una Fiat 128 con targa diplomatica che provoca un tamponamento

Negli istanti successivi i terroristi esplodono un numero impressionante di colpi. Vengono ritrovati 93 bossoli, ma i colpi sparati potrebbero essere di più. In questo inferno di fuoco vengono colpiti tutti gli uomini della scorta di Aldo Moro (Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino e Francesco Zizzi) ma il Presidente della DC resta miracolosamente illeso.

Tre uomini della scorta, feriti ma ancora vivi, ricevono il colpo di grazia[1]. Perché? Cosa non dovevano dire?

Il traditore?

“Moro non percorreva tutti i giorni la stessa strada: cambiava il percorso in ragione dei vari impegni della giornata…. Eppure, fin dalla sera del 15 marzo i brigatisti attuarono i preparativi per l’imboscata di via Fani: nottetempo vennero squarciate le gomme del pulmino appartenente al fioraio Antonio Spiriticchio che ogni giorno sostava proprio nel luogo dell’agguato. L’audace imboscata terrorista venne preceduta da una meticolosa preparazione logistica: dunque i terroristi fin dal giorno prima avevano l’assoluta certezza che la mattina dopo, verso le ore 9, l’auto di Moro sarebbe transitata in via Fani, e prima ancora che lo avesse stabilito il maresciallo Leonardi”[2].

Come potevano essere sicuri che Moro proprio quel giorno e a quell’ora sarebbe passato da via Fani?

Il Commando militare: Gladio?[3]

“L'azione militare di via Fani viene subito definita da un anonimo ufficiale dei servizi segreti «un gioiello di perfezione» attuabile solo «da due categorie di persone: militari addestrati in modo sofisticato, oppure (il che è lo stesso) da civili che si siano sottoposti a un lungo e meticoloso training in basi militari specializzate in operazioni di commando». Un parere condiviso anche dal generale Gerardo Serravalle, secondo il quale l'abilità del tiratore scelto di via Fani non poteva non presupporre un addestramento costante, quasi quotidiano, che in Italia possono consentirsi solo pochi uomini”[4].

I brigatisti non avevano alcun addestramento: “Morucci confermerà che la sola esercitazione affrontata dal commando brigatista prima dell'azione di via Fani era stata tenuta nel giardino di una villa a Velletri (ovviamente, si era trattato di una esercitazione senza "bersagli", né armi e pallottole, poiché gli spari avrebbero creato allarme nelle vicine abitazioni)”[5].

Allora chi ha condotto l’imboscata?

Divise da aviazione civile: segno di riconoscimento?

Perché i componenti del commando di via Fani indossavano divise da aviazione civile (sicuramente poco adatte a passare inosservati)? Forse perché alcuni componenti del commando, magari il tiratore scelto, era sconosciuto ai brigatisti e la divisa serviva ad identificarlo?

Munizioni in dotazione a Forze Armate non convenzionali: Gladio?

Nel commando vi è un tiratore scelto armato di mitra a canna corta che sparerà la maggior parte dei colpi la cui identità è ancora sconosciuta. Chi è? Come poteva essere così addestrato? Era un militare e/o addestrato in campi militari?

Quello che è certo è che:
“Le perizie hanno appurato che in via Fani vennero usate anche munizioni di provenienza speciale. Tra i bossoli repertati, 31 erano senza data di fabbricazione e ricoperti da una particolare vernice protettiva, «parte di stock di fabbricazione non destinata alle forniture standard dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica militare». Cartucce dello stesso tipo verranno poi trovate anche nel covo Br di via Gradoli. Secondo il perito Antonio Ugolini, «questa procedura di ricopertura di una vernice protettiva viene usata per garantire la lunga conservazione del materiale... Il fatto che non venga indicata la data di fabbricazione, è il tipico modo di operare delle ditte che fabbricano questi prodotti per la fornitura a forze statali militari non convenzionali…E quando verranno scoperti i depositi “Nasco” della struttura paramilitare segreta della Nato “Gladio” si riscontreranno le stesse caratteristiche nelle munizioni di quei depositi”[6].

Nessuna indagine

La cosa appare di una evidente gravità, eppure inspiegabilmente: “Non è stata condotta alcuna inchiesta per accertare quale ente avesse commissionato quelle particolari munizioni e la loro destinazione, dato che esse non erano destinate alle forze armate regolari né potevano essere commercializzate essendo di calibro militare e interdette a usi civili: dagli atti dei vari processi Moro non risulta siano mai stati svolti accertamenti per scoprire da quali canali quelle munizioni arrivarono alle Br”[7]

La presenza in via Fani di Gladio.

La mattina del 16 marzo alle ore 9 in via Stresa, a circa duecento metri da dove avviene la strage c’è il colonnello del Sismi Camillo Guglielmi.

"Il colonnello Guglielmi, in forza al servizio segreto militare, era uno stretto collaboratore del generale piduista Giuseppe Santovito, ed era stato istruttore presso la base di “Gladio” di Capo Marrargiu, dove aveva insegnato ai “gladiatori” le tecniche dell’imboscata...L’inspiegata presenza “a pochi metri da via Fani” del colonnello Guglielmi al momento della strage è stata rivelata molti anni dopo, nel 1991, da un ex agente del Sismi addestratosi a capo Marrargiu, Pierluigi Ravasio…"[8].

Cosa ci faceva lì il Colonnello Guglielmi[9]? Perché non ha detto, o fatto, nulla quando a 200 metri da lui avveniva un massacro?

Una Gladio della Sip?

Ad agevolare la fuga del commando un improvviso black-out interrompe le comunicazioni telefoniche della zona.

Ma il mistero Sip non si conclude con il back-out del 16 marzo 1978.

“Si susseguono durante i 55 giorni di prigionia dell’On. Moro, strane quanto improbabili coincidenze legate all’azienda dei telefoni: il 14 aprile alla redazione de Il Messaggero, è attesa una telefonata dei rapitori; vengono così raccordate in un locale della polizia, per poter stabilire la derivazione, le sei linee della redazione del giornale. Ma al momento della chiamata la Digos accerta l’interruzione di tutte e sei le linee di derivazione e non può risalire al telefonista... L’allora capo della Digos parla, nelle sue dichiarazioni agli inquirenti, di totale non collaborazione della Sip. ...In nessuna occasione fu individuata l’origine delle chiamate dei rapitori: eppure furono fatte due segnalazioni….L’allora direttore generale della Sip era iscritto alla P2, Michele Principe”[10]

Piccolo Particolare:
“Circa la vicenda della Sip si legge (Unità dell’11 luglio 1991) in uno scritto di Vladimiro Settimelli:
<>[11].

Un sequestro annunciato.

L’imminente sequestro di Aldo Moro sembra fosse noto a molti.
Come appureranno i giudici istruttori Imposimato e Priore nel corso di una rogatoria internazionale, “in Francia, a Parigi, i servizi segreti, nel febbraio 1978, già sapevano dell’organizzazione del sequestro Moro”[12].
Ma non solo.
Alcuni mesi prima del rapimento, dal Carcere di Matera il detenuto Salvatore Senatore aveva fatto arrivare al Sismi l’informazione circa il possibile sequestro di Aldo Moro.
Ed ancora: Renzo Rossellini[13], un’ora prima dell’agguato di via Fani, ovvero poco dopo le 08 del mattino del 16 marzo, su Radio Città Futura, dava la notizia di un’azione terroristica compiuta ai danni dell’On. Moro.
Moro era consapevole del pericolo, tanto consapevole da chiedere una scorta per i famigliari, da far mettere i vetri antiproiettile alle finestre del suo studio e da chiedere un auto blindata…richiesta che non verrà esaudita. Perché?

Ancora Gladio.

“Un documento della X Divisione Stay Behind (Gladio) della direzione del personale del Ministero della Marina, a firma del Capo di Vascello, capo della divisione stessa, del 02 marzo 1978, ovvero 14 giorni prima del rapimento di Moro e dell’uccisione della sua scorta, inviava l’agente G71 appartenente alla Gladio - Stay Behind- (partito da La Spezia il 06 marzo sulla motonave Jumbo M) a Beirut, per consegnare dei documenti all’agente G129, affinché prendesse contatti con “gruppi del terrorismo M.O.”, perché questi intervenissero sulle Brigate Rosse, ai fini della liberazione di Moro.
A Beirut operava come capocentro (pare anche con incarico in Gladio, visto che gli si attribuisce la sigla G216) il Colonnello Stefano Giovannone, responsabile per il Medio oriente, iscritto ai Cavalieri di Malta[14]

Il comitati di gestione della crisi in mano ai “massoni”.

Il 16 marzo 1978 Cossiga decide di istituire dei comitati per gestire la crisi.
"Non vi furono decreti di nomina, solo chiamate e partecipazioni informali, cooptazioni fatte senza renderne conto a nessuno. Unico dato certo e documentato è che le riunioni dei “Comitati di crisi” nominati da Cossiga pullulavano di “fratelli” che avevano giurato fedeltà alla P2 di Licio Gelli”[15]
Massoni dunque. Tutti vincolati al segreto. Tutti vincolati dal giuramento di fedeltà alla Loggia.
Ma come è stato gestito il sequestro Moro? Cosa hanno esaminato o deciso nelle riunioni al Viminale i Fratelli? Non si saprà mai perché tutti i verbali delle riunioni sono misteriosamente spariti.

Quello che è certo è che: "l’operato delle forze di polizia dipendenti dal Viminale e dei servizi segreti (affidati da Cossiga e Andreotti ad affiliati alla Loggia massonica segreta P2) è stato caratterizzato da una lunga sequela di errori e conniventi inerzie, tali non solo da rendere dubbia l’effettiva volontà dello Stato di salvare la vita dell’onorevole Moro arrestando i sequestratori, ma perfino da indurre a sospettare complicità e convergenze di intenti con i terroristi"[16].

Appartamento di via Gradoli

Le Br che preparano il sequestro Moro avevano scelto, sin dal 1975, come loro principale base un appartamento situato in via Gradoli 96.
Gli appartamenti di Via Gradoli erano di proprietà di società che erano legate direttamente o indirettamente ai servizi segreti. In via Gradoli 96, poi, erano ben 20 gli appartamenti intestati ai servizi segreti.

Perché mettere in quel palazzo la sede operativa delle Br? Un errore di valutazione? O forse perché abitando nello stesso palazzo i servizi segreti potevano gestire con maggior riservatezza i contatti con i brigatisti ed il sequestro del Presidente DC?

Perché dopo il falso comunicato del Lago della Duchessa il covo di Via Gradoli viene fatto scoprire? .
“Il rifugio di Mario Moretti e Barbara Balzerani era “saltato” grazie ad una fuga d’acqua che secondo i vigili del fuoco sembrava provocata apposta: uno scopettone era stato appoggiato sulla vasca, e sopra lo scopettone qualcuno aveva posato il telefono della doccia (aperta) in modo che l’acqua si dirigesse verso una fessura nel muro”[17]
Un caso? O forse come afferma Franceschini:
“L’operazione lago della Duchessa-via Gradoli (vanno sempre tenuti insieme) è un messaggio preciso a chi detiene Moro…”[18]?

Foto di Moro nella Loggia di Trapani…accanto a Gladio.

All’interno del famigerato Centro studi Scontrino di Trapani: “la polizia trovò le carte segrete di una serie di logge massoniche coperte, punto d’incontro di massoni, templari, politici, appartenenti a servizi segreti d’Occidente e d’Oriente, e anche di quei mafiosi indiziati di aver partecipato al mio attentato…. Nella stessa sede trapanese era, infine, presente l’Associazione musulmani d’Italia, sponsorizzata da Gheddafi in persona e facente capo a Michele Papa, che aveva avviato attraverso di essa una serie di iniziative collegate con le attività svolte dal leader libico (negli appunti sequestrati veniva indicato come «sostituto di Gheddafi»).”[19]

Cosa ci faceva una foto di Moro, con alcune iscrizioni massoniche apposte sulla stessa fotografia, all’interno del Centro studi Scontrino di Trapani?

E’ un caso che il colonnello libico Gheddafi: “ancora allievo nella accademia militare britannica di Sandhursi, Gheddafi era stato reclutato nella setta massonica dei Senussi di cui il suo predecessore, il re Idris, era stato gran maestro. I Senussi costituivano allora e costituiscono ancor oggi uno degli strumenti usati dai servizi segreti britannici per l’attività di controllo dell’area meridionale del Mediterraneo”[20]?

Ed è ancora un caso che a Trapani vi era anche il Centro Scorpione: “ un centro di Gladio rimasto in gran parte sconosciuto e dotato di un aereo super leggero in grado di volare al di sotto delle apparecchiature radar”[21], centro diretto dal Maresciallo Vincenzo Li Causi (indicato da un ex appartenente a Gladio, quale informatore di Ilaria Alpi) e ucciso in Somalia in circostanze mai chiarite pochi giorni prima di deporre davanti al Pm proprio sul Centro Scorpione?

Ma torniamo a Moro.

“Al di là delle ipotesi, rimane comunque il dato di fatto del rinvenimento, in una loggia massonica, di una fotografia di Aldo Moro del tutto particolare: massoniche erano, infatti, anche alcune iscrizioni apposte sulla stessa fotografia. Queste scritte non furono mai decifrate: la foto, a quanto pare, scomparve immediatamente dagli atti del processo”[22].

Le presenze costanti nel rapimento Moro.

Sino ad ora abbiamo, nel caso Moro, due presenze importanti: La massoneria e Gladio.
Sappiamo che sia la massoneria che i servizi segreti usano spesso comunicare con un linguaggio cifrato incomprensibile ai non iniziati. Forse, anche in questo caso, occorre prestare attenzione a questo tipo di linguaggio per capire il Caso Moro.

GRADO LI

E’ il 02 aprile 1978 quando nel corso di una seduta spiritica a cui partecipava, tra gli altri, anche Romano Prodi (recentemente coinvolto in una inchiesta riguardo a truffe ai danni della Comunità europea, che lo indica come affiliato ad una loggia massonica di San Marino) emerge il nome Gradoli.
Era il nome della via in cui si trovava il covo delle Br o quella seduta spiritica aveva un significato più profondo?
Vista l’ingombrante presenza della Massoneria in tutta la vicenda Moro perché non provare a leggere la cosa diversamente?

“Se fosse stato un segnale inviato a chi era in grado di capirlo perché iniziato a quel particolare linguaggio cifrato? Se il codice fosse stato, per esempio, quello rosacrociano, le lettere indicate dal piattino avrebbero potuto non formare il nome del paesino sul lago di Bolsena, ma essere lette come GRADO-LI (grado 51). Si sarebbe rinviato, cioè, a un livello ancora più occulto del trentatreesimo, un gradino più alto della gerarchia massonica conosciuta. Quale poteva essere questo misterioso Grado LI ? Un rarissimo testo pubblicato in Francia intorno al 1870 da Ely Star (pseudonimo di un seguace di Péladan e di Flam-marion), Les Mystères de l'horoscope, svela che nel Cercle de In Rose + Crobc il Grado LI corrisponde al Maìtre du Glai-ve, il Signore del Gladio.
Letto cosi e riferito alla situazione internazionale, quel messaggio poteva essere interpretato in due modi: o come una richiesta di intervento rivolta al fantomatico Signore di quella organizzazione; oppure come l'annuncio che il Grado LI stava per muoversi[23]”.

Questa è la possibile spiegazione degli autori del libro “Il misterioso intermediario”. Ma è possibile anche una terza ipotesi: dicendo “Gradoli” ovvero Signore del Gladio, non è possibile che qualcuno volesse lanciare un messaggio a tutti gli investigatori o gli eventuali inquirenti in grado di capirne il significato, avvertendoli così di non procedere, perché si trattava di un’operazione voluta e condotta da Gladio?

Il massone che aveva scritto troppo.

Vi è stata una persona, iniziata a questo linguaggio, legato ai servizi segreti che, coraggiosamente ha scritto molto sul caso Moro…. sino a quando non è stato ucciso. Era Carmine Pecorelli
Il suo modo di scrivere era sibillino, da iniziati (era un massone iscritto alla Loggia P2), ma di una cosa, oggi, siamo sicuri: sapeva molto e….scriveva. Ed allora andiamo a vedere cosa sapeva e cosa ci aveva scritto sul sequestro Moro.

Come, ricorda il Senatore Sergio Flamigni:
“Pecorelli coglieva l’atmosfera di dura ostilità verso la politica di Moro, e a partire dalla seconda metà del 1975 cominciò a esprimerla attraverso enigmatiche note di questo tenore: «È proprio il solo Moro il ministro che deve morire alle 13?»; «Moro-bondo»; «Un funzionario, al seguito di Ford in visita a Roma, ebbe a dichiararci: “Vedo nero. C’è una Jacqueline [vedova Kennedy, ndr] nel futuro della vostra penisola”»; «... E a parole Moro non muore. E se non muore Moro...». Il 9 gennaio 1976 “Op” riportò a tutta pagina una caricatura di Moro col titolo: «Il santo del compromesso, Vergine, martire e... dimesso», e le parole: «Oggi, assassinato con Moro l’ultimo centro-sinistra possibile di sedimentazione indolore della strategia berlingueriana...». Era in pratica una sequela di allusioni di morte che Pecorelli non aveva mai rivolto a nessun altro uomo politico" [24].

L’Ok all'agguato di via Fani data attraverso un necrologio?

A Pecorelli legato ai servizi segreti, alla massoneria e buon conoscitore del linguaggio degli iniziati non sfugge uno “strano necrologio” e il 15 marzo, ovvero il giorno prima dell’agguato di via Fani, l’agenzia “Op” scrive:

«Mercoledì 15 marzo il quotidiano “Vita sera” pubblica in seconda pagina un necrologio sibillino: “2022 anni dagli Idi di marzo il genio di Roma onora Cesare 44 a.C.-1978 d.C.”[25]. Proprio le idi di marzo del 1978 il governo Andreotti presta il suo giuramento nelle mani di Leone Giovanni. Dobbiamo attendere Bruto? Chi sarà? E chi assumerà il ruolo di Antonio, amico di Cesare? Se le cose andranno così ci sarà anche una nuova Filippi[26]?».

Aldo Moro come Cesare? Forse.

Aldo Moro viene rapito proprio mentre si sta recando a tenere un discorso alle Camere…proprio come Giulio Cesare che si era recato in Senato.
In via Fani c’è sicuramente, risulta agli atti, la presenza del colonnello Guglielmi, istruttore dei gladiatori nelle tecniche dell’imboscata.
Quando Giulio Cesare venne ucciso i congiurati, preparandosi all’agguato, appostano un gran numero di gladiatori a poca distanza.
Ed allora nel linguaggio degli iniziati: Chi è il genio di Roma che onora Cesare nel misterioso necrologio (si badi bene necrologio) del 15 marzo?
Ed ancora: chi poteva essere (leggi rappresentare) Bruto per Aldo Moro?
Ma la domanda più importante è: il misterioso necrologio apparso su Vita sera poteva essere in realtà l’Ok ai terroristi circa l’azione preparata per il giorno dopo?
Killer professionisti e manovalanza di piazza…il particolare da tenere a mente.
Pecorelli dimostra, attraverso i suoi scritti, di sapere anche bene da chi era composto il commando dell'agguato di via Fani, infatti, durante il sequestro del Presidente DC, su OP scrive:

“Aspettiamoci il peggio, gli autori della strage di via Fani e del sequestro di Aldo Moro sono dei professionisti addestrati in scuole di guerra del massimo livello. I killer mandati all’assalto dell’auto del presidente potrebbero invece essere manovalanza reclutata su piazza. È un particolare da tenere a mente”[27].

Eccolo il particolare da tenere a mente: In via Fani vi erano manovalanza di piazza e professionisti. Ovvero: brigatisti e… chi altro?

Le brigate rosse….un motorino.

Dopo l’uccisione di Aldo Moro Pecorelli pare sapere anche che le brigate rosse non sono altro che il braccio armato di ben più alta organizzazione e scrive:
«le Br non rappresentano il motore principale del missile, esse agiscono come motorino per la corre­zione della rotta dell’astronave Italia»[28].
Ma allora, chi è il motore principale del Missile?

La loggia di Cristo in paradiso.
Ecco un altro pezzo importante pubblicato su “Op”:
“Il ministro di polizia [cioè Cossiga, ndr] sapeva tutto, sapeva persino dove [Moro] era tenuto prigioniero... perché un generale dei carabinieri era andato a riferirglielo nella massima segretezza [ma] il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in Paradiso... Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato... Purtroppo il nome del generale CC è noto: Amen[29]”.

Dunque Pecorelli sosteneva che Cossiga fosse stato informato da un generale dei CC “Amen” (generale Dalla Chiesa[30]) dove Moro veniva tenuto prigioniero, ma che la sua azione fosse subordinata ad un livello più alto “magari sino alla loggia di Cristo in paradiso” (loggia P2).
E’ appena il caso di ricordare che i comitati di crisi istituiti da Cossiga per gestire i 55 giorni del rapimento Moro pullulavano di affiliati alla Loggia P2.
Il 20 marzo 1979 il giornalista Mino Pecorelli viene ucciso a Roma.

Conclusioni.

Anche in questo caso, come negli altri scandali e fatti di sangue italiani analizzati nei precedenti articoli di questo blog, troviamo una serie di costanti ovvero meccanismi, che scattano affinché non si giunga alla verità. Vediamoli:

- La presenza tra i protagonisti di massoni e ufficiali dei servizi segreti;
- La protezione data dal segreto;
- La morte dei testimoni;
- La scomparsa di documenti;
- I depistaggi operati da apparati dello Stato;
- le indagini non svolte;- ecc...

Grazie a questi meccanismi, sempre a tutela dell’illegalità, i fatti si sono trasformati in “misteri” e questi misteri, per alcuni, in straordinari strumenti di ricatto.

Ed allora, per il lettore che ragiona con la sua testa, al di là del bombardamento di disinformazione cui è stato sottoposto negli ultimi 30 anni, è plausibile che il caso Moro sia stato pensato, progettato, attuato da un gruppo di brigatisti (manovalanza di piazza) che si addestravano nel giardino di una villa di Velletri senza neanche i proiettili?

E’ possibile che lo stato non sia riuscito a scoprire la verità in 30 anni?

E’ possibile che le migliaia di dipendenti dei servizi segreti, dei corpi speciali, che tutte le forze di polizia e dei carabinieri non siano mai riusciti a scoprire nulla, tenuti in scacco da una gruppo di brigatisti?

E’ davvero possibile che un futuro Presidente del Consiglio riceva notizie riservate su Moro durante una seduta spiritica e poi lo ammetta pubblicamente alla nazione?

Tutto ciò è davvero possibile e credibile?

P.S.

Uno degli studiosi più attenti del caso Moro è sicuramente il senatore Sergio Flamigni. Ha pubblicato su Moro libri indispensabili per chi voglia documentarsi (31).
Proprio grazie allo studio scrupoloso ed attento delle carte del caso Moro per primo giunse ad alcune conclusioni che gli valsero le accuse di essere un visionario, dietrologo e misterologo. Dopo anni si scoprirà che il senatore Flamigni aveva ragione. Nei suoi confronti verranno, però, spese parole pesanti e ironie taglienti.
Bastano poche parole per delegittimare le risultanze di un lavoro serio ed approfondito. Sono parole che appena dette hanno la capacità di impermealizzare la capacità di ragionamento dei più: mitomane, pazzo, dietologo, visionario, complottista. Ai più attenti non sfugge che quando si attacca qualcuno sul piano personale per invalidare ciò che dice, invece di contestare il contenuto delle sue affermazioni, probabilmente la persona dice il vero, ma molti cadono nel tranello. Cadono anche perché spesso la verità è scomoda, la menzogna ben confezionata, più rassicurante.

Se avesse avuto voce e attenzione il mirabile lavoro svolto dal senatore Flamigni molte verità sarebbero emerse prima e molto di più sapremmo oggi. Invece il suo scrupoloso studio gli ha procurato una decina di querele, ovviamente tutte infondate (la magistratura ha riconosciuto esplicitamente la correttezza del suo lavoro). Ancora oggi la sua battaglia per la verità e l’informazione incontra vergognosi ostacoli dai c.d. poteri forti del nostro paese, come il suo straordinario archivio (http://www.archivioflamigni.org/) fonte di inestimabile valore in un paese dove la disinformazione rappresenta un fondamentale strumento di potere per chi vuole ingannare il popolo.

E’ grazie ai libri e all’archivio del Senatore Flamigni se oggi tante verità non sono state cancellate.
Si è cercato, e si cerca ancora, di nasconderle, è vero, ma i suoi libri, come il suo archivio, sono lì a disposizione di chi li voglia consultare.

E’ grazie ai libri ed all’archivio del Senatore Flamigni che tanti articoli di questo blog, tra cui questo, hanno potuto, e potranno, essere scritti e di questo lo ringrazio.

E, visto che mi si presenta l’occasione un ringraziamento particolare voglio rivolgere anche alla dott.ssa Ilaria Moroni, direttrice dell’Archivio Flamigni, per la sua straordinaria competenza, disponibilità e pazienza (con me ce ne vuole tanta).

[1] http://www.fondazionecipriani.it/Scritti/malavita.html
[2] S. Famigni, Convergenze parallele Kaos Edizioni, 1998
[3] Gladio era organizzazione clandestina di resistenza promossa dai servizi segreti e addestrata ad operare, in caso di occupazione nemica del territorio, nei seguenti campi: raccolta delle informazioni; cifra; radiocomunicazioni; sabotaggio; guerriglia; propaganda ed esfiltrazione
[4] S. Flamigni, La tela del ragno, Kaos edizioni 1993
[5] S. Flamigni, La tela del ragno, Kaos edizioni 1993.
[6] Op. cit. S. Flamigni
[7] Op. cit. S. Flamigni
[8] Op. cit. S. Flamigni
[9] Interrogato il colonnello Guglielmi sosterrà di essersi trovato in via strasa perché invitato a pranzo da un amico (alle nove di mattina?). L’amico sosterrà di non ricordare di aver invitato a pranzo il colonnello Guglielmi, ma di esserselo visto arrivare a casa intorno alle ore 09.00
[10] Falco Accade, Moro si poteva salvare, Massari editore
[11] Falco Accade, Moro si poteva salvare, Massari editore
[12] S. Flamigni, La tela del ragno, Kaos edizioni, 2003
[13] Interrogato sulla circostanza Rossellini sosterrà di aver fatto solo un’ipotesi
[14] Falco Accade, Moro si poteva salvare, Massari editore.
[15] Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Kaos edizioni, Milano 1993
[16] Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Kaos edizioni, Milano 1993
[17] Falco Accade, Moro si poteva salvare, Massari editore
[18] Falco Accade, Moro si poteva salvare, Massari editore
[19] Carlo Palermo, 11 settembre 2001 Il quarto livello. Ultimo atto?, Editori Riuniti
[20] Carlo Palermo op. cit.
[21] Falco Accade, Op. cit
[22] Carlo Palermo 11 settembre 2001 Il quarto livello. Ultimo atto?, Editori Riuniti
[23] Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca, Il Misterioso intermediario, Einaudi Editore
[24] S.Flamigni, dossier Pecorelli, Kaos edizioni
[25] Alle Idi di marzo del 44 a.C. Giulio Cesare venne ucciso durante una seduta del Senato di Roma
[26] La battaglia di Filippi oppose il il secondo triumvirato Ottaviano, Antonio e Lepido alle forze (dette repubblicane) di Bruto e Cassio (due dei principali cospiratori ed assassini di Cesare) La battaglia, che si svolse nel 42 a.c. fu vinta dal secondo triumvirato e Bruto e Cassio furono costretti a suicidarsi
[27] op. cit. S. Flamigni
[28] S. Flamigni, Dossier Pecorelli, Kaos edizioni
[29] Articolo del 17 ottobre 1978
[30] aveva inoltrato domanda di iscrizione alla P2, la Loggia segreta alla quale suo fratello – il generale dei Carabinieri Romolo Dalla Chiesa – era già affiliato
[31] Nel 1988 ha pubblicato "La tela del ragno - il delitto Moro", con le Edizioni Associate; nel 1993 ha iniziato la collaborazione con la Casa editrice Kaos pubblicando una nuova edizione de "La tela del ragno - Il delitto Moro" (1993) e successivamente: "Trame Atlantiche - Storia della loggia segreta P2 " (1996); "Il mio sangue ricadrà su di loro - Gli scritti di Moro prigioniero delle Br" (1997); "Convergenze parallele" (1998); "Il covo di Stato" (1999); "I fantasmi del passato - La carriera politica di Francesco Cossiga" (2001); l'ultima edizione rivista e aggiornata de "La tela del ragno - Il delitto Moro" (2003); "La sfinge delle Brigate Rosse. Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario Moretti" (2004). Sempre con la Kaos Edizioni ha curato la prefazione di "Dossier Piano Solo" (2005). Successivamente poi: "Dossier Pecorelli" (2005); "Le idi di Marzo - Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli" (2006).

tratto da http://paolofranceschetti.blogspot.com

martedì 30 settembre 2008

Il vento dell'odio

Un romanzo a due voci ambientato negli anni di piombo, ma anche un ritratto impietoso di un Paese che i conti con la propria storia non li ha voluti ancora fare. E questa la quinta del nuovo romanzo del giornalista e saggista Roberto Cotroneo, Il vento dell'odio (Mondadori, pp. 288, euro 18).

Un titolo, spiegano le ultime pagine del libro, per il quale Umberto Eco ‘'è stato decisivo''. Le voci sono quelle dei protagonisti: Cristiano Costantini e Giulia Moresco, terroristi entrati in clandestinità che non accettano di essere stati manovrati, certo a loro insaputa, da burattinai di cui non sapranno neanche il volto. Entrambi sono figli di padri con una doppia vita, che stanno per lunghi periodi lontani da casa: uno fa la spia ai servizi segreti e mastica nel cuore il fascismo di Mussolini, l'altro è un ‘compagno' che ha fatto della Cecoslovacchia la sua seconda casa e tiene in cassaforte documenti misteriosi.


Dopo l'esperienza della lotta armata, Giulia acquisterà la casa dove abitava Cristiano -ormai latitante da decenni in Argentina - e facendo dei lavori di ristrutturazione trova nascosto in un tramezzo un memoriale che li incatena entrambi al proprio passato. Riesce a farlo avere a Cristiano, che deve a tornare a Roma per affrontare le ombre degli anni Settanta, fantasmi che neanche il tempo può esorcizzare.

‘'È una storia in cui ho investito molto tempo e pensiero - spiega Roberto Cotroneo - Sono convinto che se non avremo chiarezza su ciò che è accaduto in quegli anni, saremo un Paese irrisolto. Ognuno deve prendersi le proprie responsabilità e non giocare coi fatti''. E a chi gli fa notare che il passato fa sempre continua irruzione nella vita servendosi a volte - come avviene per Cristiano, solo nel suo esilio a Puerto Piramides - di un pacco che contiene uno strumento musicale, un bandeneon marca Arnold e qualche foglio, Cotroneo replica: ‘'I segni del passato incidono comunque. Dopo aver ricevuto quel pacco Cristano torna come devono tornare tutti a fare i conti con la propria storia. Gli anni '70 sono è stato un periodo brutto della nostra vita. Abbiamo bisogno di tornarci per capire un periodo''.

‘'Il terrorismo - scandisce Cotroneo - non è stato il sogno di una generazione, è stato un passo di morte. E questo va riconosciuto senza sconti. Tanto è vero che, a distanza di trent'anni, stiamo ancora pagando quelle scelte'. L'uomo che abitava la casa gialla, il vecchio olandese, lucido e sempre in fuga, quando vedrai - insieme a Cristiano - alcuni ragazzi che si picchiano su una spiaggia, gli metterà una mano sul ginocchio dicendogli di non intervenire: ‘'Si chiama odio'', gli disse,‘'lo riconosci soltanto quando lo hai dentro di tè".

In queste pagine ricorre anche un'altra cifra testuale per dire ciò che passava nell'animo dei giovani di quel tempo di pietra: è l'odore del sangue. ‘'L'abbiamo coperto con l'ideologia - ci spiega Cotroneo - ma quel sangue c'è stato e resta. Resta sulle strade e nella storia, non si toglie finché non avremo il coraggio di guardarlo''. C'è anche un altro elemento proprio della narrazione di Cotroneo, già autore di romanzi e saggi tradotti in numerosi Paesi: il fermarsi sul ‘bianco e nero di quegli anni':

‘'Volevo vedere quale colore resta - rimarca ancora l'autore - l'unica cosa che non vorrei restasse è il grigio, quello del piombo e del cielo di allora. Il bianco e nero è anche un modo di ricordare giornali e tv di quel periodo. Anche loro non avevano colori. Qualche tinta a quelle immagini l'abbiamo poi messa negli anni successivi, ma non abbastanza. Lo dimostra il riproporsi ancora oggi di espressioni e azioni violente da una parte politica o dall'altra. Insomma - taglia corto Cotroneo - questa storia non riusciamo ancora a togliercela di dosso. E torna tutto, come un film a ritroso che non abbiamo mai guardato bene".

Quanto al ruolo dei ‘padri', che nell'architettura de ‘Il vento dell'odio' hanno una precisa funzione, quella di aver seminato male e raccolto peggio, il giornalista precisa: ‘'Abbiamo sempre dato l'immagine di un Paese bonario, dipingendo il ventennio fascista come una bizzarria della storia, così come abbiamo giudicato bizzarro il Pci filosovietico. Non è cosi: questo era ed è rimasto il Paese della doppia verità. Vi circola un'ambiguità costante e continua, dalla quale non siamo venuti fuori''.

Fu questo non vedersi più tra padri e figli a permettere l'orrore di quegli anni: ‘'Erano spari al buio, spari nella notte, verso una folla indistinta che non aveva nome". Anche oggi, invita a fare l'autore, in pochi hanno provato a guardare in faccia ‘'i padri e i familiari di quei ragazzi'' poi passati alla lotta armata: ‘'Con la destra questo è stato più facile, bastava dire che sono violenti e irrazionali di natura per mettersi la coscienza a posto. Con quelli di sinistra, invece, si è sempre stati assolutori: loro non erano violenti ma ‘ideologici'. Non era ovviamente cosi' - taglia corto Cotroneo - e abbiamo pagato anche per quello''.

La madre di Giulia, in un passaggio intenso della narrazione, le confessa: ‘'Tuo padre fu chiamato a Praga, ebbe il manoscritto originale di Moro, tutte le trascrizioni esatte degli interrogatori, una parte di nastri con la sua voce. Non so come". Quelle carte avrebbero potuto rivoltare la storia italiana come un calzino. E con le carte gialle dello statista democristiano ucciso, si affaccia un ulteriore mistero: chi è l'uomo che ha messo quei documenti nel tramezzo della casa dei Cristiano è ‘'mi ha tolto il sonno per molte notti''? Forse è vero: i manoscritti nascosti nel tramezzo della casa sono anche simbolo dei ‘'silenzi che un intero Paese non sa leggere".

Cotroneo cuce parti di storia, fa parlare segreti sussurrati di corsa. Soprattutto cose mal digerite, che tornano davanti agli occhi come fantasmi attraverso le carte di Aldo Moro ma anche attraverso la consapevolezza che nessun luogo - qui davvero ‘utopia' per dirla con l'autore - basta a mettere in salvo il cuore dai propri errori. Proprio del leader della Dc assassinato dalle Brigate Rosse, Cotroneo spiega: ‘'Aldo Moro è il simbolo di un Paese che voleva diventare diverso e non c'è riuscito. Il progetto del compromesso storico, come anche la strategia delle convergenze parallele, a molti non era accettabile.

Credo che l'omicidio di Moro - rimarca l'autore - sia stata la fine del processo di modernizzazione di questo Paese". ‘'La nuova Italia era identica a quella vecchia, solo che non voleva ammetterlo nessuno'', recita un'espressione del romanzo. E altrove: 'da noi il terrorismo non ha a che fare con la storia. È qualcosa di immobile, di fermo, di sempre uguale: è privo di storia, è privo di evoluzione, è semplicemente quello che si vede. Odio, morte e ideologia, un'ideologia sempre uguale".

C'è più bisogno di luce mentre si sprofonda e si aprono valigie che scottano. Il bandoneon è lo strumento ideale per suonare il tango, la musica della nostalgia e della perdita. Uno strumento musicale illogico, con i bottoni che suonano le note sistemati in modo casuale, o quasi. Con le sue coperture, Cristiano diventa Osvaldo Fresedo, un argentino che grazie ai falsi documenti è appena ‘nato'. Ma lui, la sua storia, quello che veramente pensava e voleva, ‘'non c'era più. Con quel nome era stato ucciso ancora''. Questa condizione lo porterà a un'altra decisione di morte quando si troverà di fronte il ‘Professor Italo', un altro personaggio chiave del romanzo, che cerca di richiamarlo in azione e esce di scena con il mistero insanguinato dei suoi libri in sanscrito e le sue citazioni del ‘Ribellè di Junger.

L'uomo che sta per suicidarsi, in una lunga lettera dirà: ‘'Voi pensate che tutto abbia sempre un inizio e una fine. In tutti questi anni ho imparato che l'ordine è una sorpresa che ogni tanto il caos riesce a concederti, ma è una sorpresa rara''. Il messaggio di Cotroneo è rivolto in particolare ai giovani: ‘'Ripensare in profondità quel periodo. Abituarsi a guardare dentro gli anni di piombo con occhi diversi, evitando giudizi scontati. In una parola: non fermarsi, se si vuol davvero comprendere davvero un pezzo di storia italiana mai chiarita fino in fondo''.

‘'Mi è stato detto che il nostro Paese è cambiato e che queste sono soltanto vecchia storia - spiega una pagina del romanzo - Mi è stato detto che forse è il silenzio la cura migliore per superare una lunga stagione di violenze e contraddizioni. Ho cercato di ascoltare tutti, ma non mi hanno convinto''.

C'è una polvere che assomiglia alla memoria. Il bandeneon deve essere suonato ancora: nel ‘vento dell'odio' porterà una musica che nessuno vuole ascoltare. Ma sono note che tornano sempre.

di Gerardo Picardo
www.agenziaradicale.com

Misteri italiani. Aldo Moro e Wojtyla, vittime di Yalta?

Sostenere la pista bulgara nel tentativo di omicidio a Giovanni Paolo II mi sembra molto difficile: per l'attentato al Papa si è indagato, con i limitati mezzi che ha un Pm, solo sul livello degli esecutori e non dei mandanti", spiega il giudice Rosario Priore facendo il punto, a 27 anni dai fatti, sui colpi sparati, il 13 maggio del 1981 a piazza San Pietro, contro papa Wojtyla.
Tre le ipotesi, al di là dei "limitati" risultati delle inchieste giudiziarie: la pista dell'Est, parzialmente accreditata dal Papa nel suo ultimo libro, quella islamica e la terza, la più sfuggente e complessa: quella che postula, al di là degli esecutori materiali del fatto, una sorta di convergenza, dichiarata o implicita, tra gruppi dirigenti oltranzisti dell'Est e dell'Ovest nel liquidare una politica del Vaticano, e un Papa, che stava mettendo in crisi nelle sue fondamenta l'ordine di Yalta.
Su questa pista, "molto affascinante" secondo Priore che stamane è intervenuto a Pomezia al corso promosso dal Polo universitario e dal Ceas (Centro Alti Studi per la lotta contro il terrorismo), ci sono state interpretazioni diverse e anche un richiamo ad un altro caso-chiave della nostra recente storia: l'assassinio di Aldo Moro .
Entrambe hanno in comune un obiettivo di fondo: quello di evitare a tutti i costi lo scompaginamento dell'equilibrio di Yalta che i circoli più oltranzisti di Est ed Ovest volevano mantenere il più a lungo possibile.
"Nella nostra inchiesta abbiamo trovato incredibili convergenze tra forze che dovevano essere contrastanti, in teoria", ha detto il magistrato che ha indagato sull'attentato a Giovanni Paolo II.
"Il capo brigatista Giovanni Senzani - ha detto Priore - ha parlato in suoi appunti del 'Terzo giocatore' tra Est ed Ovest, cioè degli interessi nazionali, spesso compressi, di singole nazioni in un campo e nell'altro. Ci sono Stati stati, servizi, che hanno cercato di 'erodere' l'ordine congelato a Yalta, politici che hanno cercato una 'terza via', ma il giudice deve camminare solo sulle prove. Questo è argomento più da storico che da magistrato".

Il criminologo Francesco Bruno ha puntato il dito su una pista mai emersa con chiarezza, quella della Chiesa Ortodossa, o meglio sulle frange oltranziste che si sono sempre opposte al dialogo tra la Chiesa Cattolica e Mosca. A riscontro le proteste espresse dalla Chiesa Maggioritaria in Ucraina quando il Papa incontrò il patriarca Filarete, durante il suo viaggio nel 2001 e la ferma opposizione al viaggio del Papa a Mosca.
"È un caso se alcuni dei messaggi che svelano il ruolo giocato nel rapimento di Emanuela Orlandi dalla Banda della Magliana sono proprio siglati Filarete? No, non è roba da delinquenti comuni ma da menti altissime e coltissime", ha concluso il criminologo.

mercoledì 10 settembre 2008

Lasciate stare Moro e Berlinguer

Sabato, Enrico Ghezzi, nel suo Blob ha mandato in onda pezzi di tribune politiche degli Anni 60-70 con i leader (Togliatti, Moro, Saragat, Fanfani, Berlinguer, Almirante e tanti altri «minori») interrogati dai giornalisti su casi che anticipavano la «questione morale» o ripresi mentre facevano un discorso su temi scottanti (Fanfani e Almirante sul divorzio).

Una di queste riprese riguardava Aldo Moro, allora (1960) segretario della Dc, al quale un giornalista chiedeva come spiegava il fatto che nella lista per le elezioni amministrative a Mussomali (grosso comune nella provincia di Caltanissetta) la Dc aveva incluso il capomafia Genco Russo. La risposta è imbarazzata («si tratta di un piccolo comune, non è capolista» ecc.) ma poi il leader dc afferma: «Non ci sono atti e documenti che qualifichino quel candidato come mafioso». La risposta fa pensare che Moro conoscesse il fatto anche se si verificava in un «piccolo comune» e non dicesse il vero, dato che c’erano atti e documenti che qualificavano Genco Russo come mafioso. Questo non vuol certo dire che Moro fosse colluso con la mafia, ma al contrario che la Dc (anche con Moro) preparando le elezioni del 1948 e successivamente per costruire la diga contro il comunismo e garantirsi il ruolo guida, accettò il «quieto vivere» (l’espressione è di Andreotti) con la mafia. E l’accettarono De Gasperi, Fanfani, Andreotti. Quest’ultimo operò con più spregiudicatezza, ma dentro quel quadro.

Ho ripreso questo pezzo della storia politica italiana per ricordare agli smemorati che Aldo Moro in tutti i momenti, anche nei più sgradevoli, difese il ruolo centrale della Dc alla guida del Paese. Ricordo anche il suo discorso alla Camera dei deputati in occasione delle accuse fatte ad esponenti della Dc per le tangenti pagate dalla società Usa Lockheed per le forniture di aerei: «Non ci faremo processare sulle piazze». E quando nel 1976 raggiunse con Berlinguer un’intesa di governo volle, fortemente volle, che a guidarlo fosse Andreotti, per garantire l’unità e il ruolo della Dc. Anche nella prigione delle Br le sue lettere hanno come asse la famiglia e l’incerto domani della Dc («il futuro non è più solo nelle nostre mani»).

Questo scenario mi è tornato in mente quando sull’Unità ho letto che nei circoli Pd sono ammessi due quadri, Moro e Berlinguer, santi protettori del partito. Ma, se Moro fu il leader democristiano che con più coerenza e determinazione difese il ruolo della Dc e dei cattolici democratici, Berlinguer fu il più deciso sostenitore dell’identità comunista del partito. Il leader del Pci si separò umanamente e politicamente dal comunismo sovietico con nettezza e determinazione e ricercò un rapporto con quei dirigenti socialdemocratici che si battevano per la causa del Terzo Mondo (Olof Palme, Willy Brandt), ma restò un comunista che, con la democrazia e le riforme di struttura, voleva superare il capitalismo e realizzare una società socialista. Per questo il Pci doveva restare, con la sua autonomia, nel campo anticapitalista e antimperialista e separato dalle socialdemocrazie.

Poi c’è stato l’89 e il crollo del Muro e del «campo», e non sappiamo come avrebbero reagito Moro e Berlinguer. Certo diversamente da come confusamente hanno reagito i loro eredi. I quali pur non avendo elaborato un loro pensiero, una strategia e una cultura per fare un partito, mettono nei circoli le foto di Moro e Berlinguer identificandoli come padri del Pd. Invece furono leader di due partiti con identità radicalmente diverse anche se li unì una forte tensione politico-morale nella guida dei loro partiti. L’operazione Dc-Pci, Moro-Berlinguer la fanno proprio coloro che ripetono sino alla noia che le culture politiche del Novecento sono morte e sepolte. Oggi autorevoli promotori del Pd dicono che questo partito «implode» (Scalfari domenica su Repubblica). E con Scalfari tanti altri. Ma perché implode? Perché c’è Veltroni e non D’Alema o Parisi o un quarantenne? Non scherziamo. Cari amici democratici, lasciate in pace Moro e Berlinguer, anche perché non meritano di «implodere» con il Pd e, se volete, avviate un confronto serio e reale su cos’è oggi questo partito e cosa potrebbe essere domani. Intanto il Papa dice che all’Italia occorre una nuova generazione di cattolici impegnati nella politica. Per chi suona la campana?

di Emanuele Macaluso
www.lastampa.it

martedì 8 luglio 2008

Moro? Sapevo di averlo condannato a morte

Presidente Cossiga, auguri per i suoi ottant'anni. Lei è sempre malatissimo, e tende sempre a relativizzare il suo cursus honorum — Viminale, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Quirinale —. Eppure la vita le ha dato longevità e potere. Come se lo spiega?
«Ma io sono ammalatissimo sul serio! Nove operazioni, di cui cinque gravi, una della durata di sette ore, seguita da tre giorni di terapia intensiva. Ma resisto. Come si dice in sardo: "Pelle mala no moridi"; i cattivi non muoiono. E io buono non sono. Io relativizzo tutto quello che non attiene all'eterno. E poi, come spiego in un libro che uscirà a ottobre, "A carte scoperte", scritto con Renato Farina, tutte le cariche le ho ricoperte perché in quel momento e per quel posto non c'era nessun altro disponibile. Io uomo di potere? Sempre a ottobre uscirà un altro libro — "Damnatio memoriae in vita" — con tutti gli articoli, lettere e pseudo saggi di insulti e peggio pubblicati durante il mio settennato contro di me da Repubblica ed Espresso ».

A trent'anni dalla morte di Moro, il consulente che le inviò il Dipartimento di Stato, Steve Pieczenick, ha detto: «Con Cossiga e Andreotti decidemmo di lasciarlo morire». Quell'uomo mente? Ricorda male? Ci fu un fraintendimento tra voi? O a un certo punto eravate rassegnati a non salvare Moro?«Quando, con il Pci di Berlinguer, ho optato per la linea della fermezza, ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte. Altri si sono scoperti trattativisti in seguito; la famiglia Moro, poi, se l'è presa solo con me, mai con i comunisti. Il punto è che, a differenza di molti cattolici sociali, convinti che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile, io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era così: la dignità dello Stato, come ha scritto, non valeva l'interesse del suo nipotino Luca».

Esclude che le Br furono usate da poteri stranieri che volevano Moro morto?
«Solo la dietrologia, che è la fantasia della Storia, sostiene questo. Tutta questa insistenza sulla "storia criminale" d'Italia è opera non di studiosi, ma di scribacchini. Gente che, non sapendo scrivere di storia e non essendo riusciti a farsi eleggere a nessuna carica, scrivono di dietrologia. Fantasy, appunto ».

Quale idea si è fatto sulle stragi definite di «Stato», da piazza Fontana a piazza della Loggia? La Dc ha responsabilità dirette? Sapeva almeno qualcosa?«Non sapeva nulla e nessuna responsabilità aveva. Molto meno di quelle che il Pci (penso all'"album di famiglia" della Rossanda) aveva per il terrorismo rosso».

Perché lei è certo dell'innocenza di Mambro e Fioravanti per la strage di Bologna? Dove vanno cercati i veri colpevoli?«Lo dico perché di terrorismo me ne intendo. La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della "resistenza palestinese" che, autorizzata dal "lodo Moro" a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo. Quanto agli innocenti condannati, in Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi. E nella rossa Bologna la strage doveva essere fascista. In un primo tempo, gli imputati vennero assolti. Seguirono le manifestazioni politiche, e le sentenze politiche».

Scusi, i palestinesi trasportavano l'esplosivo sui treni delle Ferrovie dello Stato?
«Divenni presidente del Consiglio poco dopo, e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così. Anche le altre versioni che raccolsi collimavano. Se è per questo, i palestinesi trasportarono un missile sulla macchina di Pifano, il capo degli autonomi di via dei Volsci. Dopo il suo arresto ricevetti per vie traverse un telegramma di protesta da George Habbash, il capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina: "Quel missile è mio. State violando il nostro accordo. Liberate subito il povero Pifano"».

C'è qualcosa ancora da chiarire nel ruolo di Gladio, di cui lei da sottosegretario alla Difesa fu uno dei padri?«I padri di Gladio sono stati Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Gaetano Martino e i generali Musco e De Lorenzo, capi del Sifar. Io ero un piccolo amministratore. Anche se mi sono fatto insegnare a Capo Marrangiu a usare il plastico».

Il plastico?«I ragazzi della scuola di Gladio erano piuttosto bravi. Forse oggi non avrei il coraggio, ma posseggo ancora la tecnica per far saltare un portone. Non è difficile: si manipola questa sostanza che pare pongo, la si mette attorno alla struttura portante, quindi la si fa saltare con una miccia o elettricamente... ».

E' sicuro che il plastico di Gladio non sia stato usato davvero?
«Sì, ne sono sicuro. Gli uomini di Gladio erano ex partigiani. Era vietato arruolare monarchici, fascisti o anche solo parenti di fascisti: un ufficiale di complemento fu cacciato dopo il suo matrimonio con la figlia di un dirigente Msi. Quasi tutti erano azionisti, socialisti, lamalfiani. I democristiani erano pochissimi: nel mio partito la diffidenza antiatlantica è sempre stata forte. Del resto, la Santa Sede era ostile all'ingresso dell'Italia nell'Alleanza Atlantica. Contrari furono Dossetti e Gui, che pure sarebbe divenuto ministro della Difesa. Moro fu costretto a calci a entrare in aula per votare sì. E dico a calci non metaforicamente. Quando parlavo del Quirinale con La Malfa, mi diceva: "Io non c'andrò mai. Sono troppo filoatlantico per avere i voti democristiani e comunisti"».

Qual è secondo lei la vera genesi di Tangentopoli? Fu un complotto per far cadere il vecchio sistema? Ordito da chi? Di Pietro fu demiurgo o pedina? In quali mani?«Credo che gli Stati Uniti e la Cia non ne siano stati estranei; così come certo non sono stati estranei alle "disgrazie" di Andreotti e di Craxi. Di Pietro? Quello del prestito di cento milioni restituito all'odore dell'inchiesta ministeriale in una scatola di scarpe? Un burattino esibizionista, naturalmente ».

La Cia? E in che modo?
«Attraverso informazioni soffiate alle procure. E attraverso la mafia. Andreotti e Craxi sono stati i più filopalestinesi tra i leader europei. I miliardi di All Iberian furono dirottati da Craxi all'Olp. E questo a Fort Langley non lo dimenticano. In più, gli anni dal '92 in avanti sono sotto amministrazioni democratiche: le più interventiste e implacabili».

Quando incontrò per la prima volta Berlusconi? Che cosa pensa davvero di lui, come uomo e come politico?«Era il 1974, io ero da poco ministro. Passeggiavo per Roma con il collega Adolfo Sarti quando incontrai Roberto Gervaso, che ci invitò a cena per conoscere un personaggio interessante. Era lui. Parlò per tutta la sera dei suoi progetti: Milano 2 e Publitalia. Non ho mai votato per Berlusconi, ma da allora siamo stati sempre amici, e sarò testimone al matrimonio di sua figlia Barbara. Certo, poteva fare a meno di far ammazzare Caio Giulio Cesare e Abramo Lincoln...».

Ci sono accuse più recenti.«Non facciamo i moralisti. Il premier britannico Wilson fece nominare contessa da Elisabetta la sua amante e capo di gabinetto. Noi galantuomini stiamo con la Pompadour. Quindi, stiamo con la Carfagna ».

Lei non è mai stato un grande estimatore di Veltroni. Come le pare si stia muovendo? Resisterà alla guida del Pd, anche dopo le Europee?«E che cosa è il Pd? Io mi iscriverei meglio a ReD, il movimento di D'Alema, di cui ho anche disegnato il logo: un punto rosso cerchiato oro. Veltroni è un perfetto doroteo: parla molto, e bene, senza dire nulla. Perderà le Europee, ma resisterà; e l'unica garanzia per i cattolici nel Pd che non vogliono morire socialisti».

Perché le piace tanto D'Alema?
«Perché come me per attaccare i manifesti elettorali è andato di giro nottetempo con il secchio di colla di farina a far botte. Perché è un comunista nazionale e democratico, un berlingueriano di ferro, e quindi un quasi affine mio, non della mia bella nipote Bianca Berlinguer che invece è bella, brava e veltroniana. E poi è uno con i coglioni. Antigiustizialista vero, e per questo minacciato dalla magistratura ».

Cosa pensa dei giovani cattolici del Pd? Chi ha più stoffa tra Franceschini, Fioroni, Follini, Enrico Letta?
«Sono una generazione sfortunata. Il loro futuro è o con il socialismo o con Pierfurby Casini».

Come si sta muovendo suo figlio Giuseppe in politica? E' vero che lei ha un figlio "di destra" e una figlia, Annamaria, "di sinistra"?«Li stimo molto entrambi. Tutti e due sono appassionati alla politica come me. Mia figlia è di sinistra, dalemiana di ferro, e si iscriverà a ReD. Mio figlio è un conservatore moderno, da British Conservative Party. Io pencolo più verso mio figlio».

E' stato il matrimonio il grande dolore della sua vita?
«Non amo parlare delle mie cose private. Posso solo dire che la madre dei miei figli era bellissima, intelligentissima, bravissima, molto colta. Che ha educato benissimo i ragazzi. E che io l'ho amata molto».

Aldo Cazzullo
08 luglio 2008

domenica 6 luglio 2008

Aldo Moro: il diritto penale dal volto umano

Vi posto questa mia recensione al libro:
A. Moro, Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale di Aldo Moro, Cacucci, Bari, 2005, raccolte e curate da Francesco Tritto.


Il libro, che l’editore Cacucci (non a caso l’editore delle lezioni di Filosofia del diritto tenute da Moro a Bari negli anni Quaranta) ha pubblicato in modo pregevole, contiene una ricca Introduzione in cui Tritto, da una parte, ricostruisce la sua collaborazione con Moro e offre una toccante e diretta testimonianza che illumina il rapporto dello statista con i suoi studenti e con i giovani, della sua capacità di guardare al di là, di cogliere prospettive nuove, di anticipare problematiche, di individuare soluzioni. Ne esce una fotografia particolarmente affascinante che ci mostra un Moro notevolmente diverso da quello ‘ufficiale’. Dall’altra parte, il lavoro introduttivo di Tritto è di grande interesse soprattutto per cogliere l’importanza delle lezioni quale contributo più sistematico di Moro alla scienza penalistica italiana alla quale aveva pur donato in passato notevoli monografie, per riconoscimento unanime della dottrina, su singole questioni (si pensi ai lavori sulla unità e pluralità dei reati e a quello sulla subiettivizzazione della norma penale o della antigiuridicità penale).
L’importanza di queste lezioni, seppur pubblicate a diversi anni di distanza, è sottolineata, adeguatamente, del resto, da Giuliano Vassalli che nella Presentazione ricorda che finalità essenziale del lavoro è proprio quella di permettere agli studiosi di diritto penale di conoscere con maggiore completezza e autenticità il pensiero penalistico “di un grande cultore della materia”.
La lettura delle lezioni, che Tritto si augurava approfondita dai penalisti in modo obiettivo, permetterà di inquadrare il pensiero di Moro nel più ampio dibattito dottrinario riguardante i principali temi ed istituti penalistici.
In questa sede preme rilevare un aspetto caratterizzante queste lezioni, e più in generale il pensiero filosofico di Moro che sta sullo sfondo ma è ben visibile (al di là del fatto che, come ci ricorda Tritto, la prima parte del corso delle lezioni, prevedeva un programma che riprendeva i temi generali sul diritto e sullo stato trattati nelle lezioni di filosofia del diritto). La profonda formazione filosofico-giuridica gli consente, infatti, di analizzare i problemi della materia affrontata in modo complesso, tenendo presente tutte le angolature, ponendo costantemente e lucidamente l’attenzione sulle diverse implicazioni sociali e politiche. Nel Moro delle lezioni si realizza, in perfetta coerenza col suo pensiero filosofico e con la sua esperienza politica, una perfetta complementarietà di diritto-politica e morale in quanto le categorie della giuridicità e della politica sono, ed è qui che si sente maggiormente la lezione di Giuseppe Capograssi, espressione della vita etica e cioè di quel processo attraverso il quale “il soggetto realizza la sua vita più vera, ascendendo dal piano della sua particolarità empirica a quello della universalità, che rappresenta il suo valore propriamente umano […] l’eticità è in ogni caso slancio spontaneo della persona che, superando le angustie del suo limite particolare, spazia nell’universale”.
Ecco perché la sua preoccupazione è per i principi, per le ‘cose essenziali’. È sempre in primo piano la sua convinzione sulla necessità che l’esperienza giuridica, e quindi anche e soprattutto quella che si evidenzia nel diritto penale, mantenga ferma la sua finalità che è il richiamo incessante alla persona umana. L’idea di fondo è che la persona umana rappresenti allo stesso tempo il principio e il fine dell’esperienza giuridica stessa.
Queste premesse sono alla base della sua concezione ‘umanistica’ del diritto penale che Tritto ha evidenziato nella Introduzione e che tanti studiosi (Bettiol, Vassalli, Conso, Contento) hanno sempre colto nell’opera morotea. Le lezioni rappresentano la sede più importante nella quale questa concezione, già presente nelle monografie del primo periodo, viene compiutamente elaborata, anche alla luce della straordinaria esperienza politica e istituzionale acquisita da Moro (al tempo delle lezioni pubblicate era Presidente del Consiglio dei Ministri). Scrive Tritto: “sia che Egli rivolga l’attenzione all’autore del reato (persona libera di autodeterminarsi e di scegliere, quindi, tra il bene e il male), sia che si tratti di indagare sulle singole categorie o istituti penalistici, ogni Sua riflessione è incentrata sulla persona umana, sulla sua dignità, sui valori, su giustizia, libertà, verità” (p. 62).
Emblematica, in questa prospettiva, la concezione etico-retributiva della pena con la quale, insolitamente, iniziava il corso di diritto penale. Per Moro la pena non è “il male per il male, la rinuncia, la limitazione della personalità odiosamente praticata in se stessa. La pena è questa limitazione della personalità finalizzata ad una ragione più alta, che è quella della cancellazione del male, della eliminazione, sul piano ideale, del male che si è verificato nella vita sociale: il male al quale subentra il bene. La pena, con le sue limitazioni, con i suoi svantaggi, è il segno del bene che riprende il suo dominio nella vita umana e nella vita sociale, riprende il suo dominio e cancella il male. Quindi non è una crudeltà, anzi, non può essere una crudeltà, la pena, perché essa è finalizzata ad una riaffermazione del bene nella vita e, quindi, non è male come male, ma limitazione e svantaggio per il bene che rappresenta, per il bene che reintroduce, per l’ordine che ristabilisce nella vita umana e nella vita sociale” (p. 102).
Resta anche nelle lezioni, in parte attutito solo dal suo entusiasmo e dalla predilezione per i giovani, un senso di pessimismo, direi di matrice paolina, verso il mondo delle istituzioni, della politica e del diritto. È un motivo ricorrente nella produzione morotea già da quando, giovane docente di Filosofia del diritto, scrisse queste parole: “Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostre ideali esigenze: la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare. Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. E’ un dolore che non si placa, se non un poco, quando sia confessato ad anime che sappiano capire o cantato nell’arte o quando la forza di una fede o la bellezza della natura dissolvono quell’ansia e ridonino la pace. Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino”.

Mario Sirimarco

domenica 29 giugno 2008

CARLOS: COSI' SALTO' L'ULTIMO TENTATIVO DI SALVARE ALDO MORO

Un ultimo, estremo tentativo di salvare Aldo Moro venne tentato da una fazione del Sismi che preparo', con l'aiuto dei palestinesi dell'Fplp (l'ala marxista della resistenza palestinese vicina alla RAF) di portare dei brigatisti italiani dal carcere in un Paese arabo . A far da garanti c'erano proprio dei palestinesi che agivano sotto la protezione dell'ala del Sismi che faceva capo al colonnello Stefano Giovannone, che era il capo centro a Beirut e uomo notoriamente vicino a Moro che lo invoca in una delle sue lettere. Probabilmente per una indiscrezione partita da un uomo dell'Olp, quell'ultimo tentativo venne bloccato e l'aereo, un executive dei servizi, staziono' invano sulla pista di Beirut l'8 e il 9 di maggio.
A 30 anni dalla morte del Presidente Dc a fare queste rivelazioni, confermando precedenti allusioni e', in una intervista esclusiva all'Ansa, Carlos , Ilich Ramirez Sanchez,''lo sciacallo''. Carlos non aveva mai chiarito l'esatta dinamica di questo ultimo tentativo facendo sorgere l'ipotesi che si riferisse ad uno scambio - che ora smentisce- con 4 capi della RAF (le Br tedesche) che erano nella mani del generale jugoslavo Tito e che vennero interrogati dall'Ammiraglio Martini proprio nella tarda mattinata del 9 maggio, quando pero' Moro era gia' morto. L'intervista e' stata realizzata grazie alla collaborazione dell'avvocato difensore di Carlos, Sandro Clementi e della signora Sophie Blanco che hanno incontrato Carlos nel carcere di Poissy nei giorni scorsi.

-D: L'Ammiraglio Fulvio Martini, che nel 1978 era vice responsabile del servizio segreto italiano, ha raccontato che la mattina del 9 maggio del 1978 si reco' in missione in Jugoslavia- per interrogare gli esponenti della RAF che erano in mano a Tito. Questi affermavano di aver avuto rapporti con le Br a Milano. Si trattava dell'allora vertice della RAF Gli uomini della Raf in mano a Tito dovevano essere scambiati proprio il 9 maggio con il Presidente della Dc che invece venne ucciso proprio quel giorno?
-R: Non e' vero. Le Br non avrebbero potuto essere oggetto di uno scambio come tanto meno i tedeschi in cambio della vita di Moro. Lo scambio avvenuto tra i servizi jugoslavi e i tedeschi del BND ( servizi segreti di Bonn) e' stato effettuato in cambio dei membri del gruppo Hoffman catturati in Jugoslavia e consegnati ai tedeschi.

-D: A fine marzo del 1978 le Br presero contatto con uomini di Chiesa. Volevano arrivare ad un confronto con uomini dello Stato per avviare una trattativa. Si individuo' anche il mediatore, un uomo politico vicino all'allora ministro dell'Interno, Francesco Cossiga che ha recentemente detto che quell'incontro avvenne effettivamente e proprio a Milano. Lei ha parlato di rivoluzionari stranieri che si stavano recando ad una riunione decisiva ''per stabilire un contatto con un rappresentante dello Stato'' e che sfuggirono per un soffio all'arresto. Qualcuno, con quel blitz, interruppe un canale? Si trattava degli stessi uomini della RAF che poi fuggirono in Jugoslavia?
-R: Quello che posso dire e' che vi era un contatto tra le 2 direzioni (BR - RAF) e che ci fu in quel momento un'operazione delle teste di cuoio (prima nella storia). Il Governo italiano non aveva necessita' di stabilire contatti con gruppi stranieri per liberare Moro - i compagni della RAF tornavano dalla Jugoslavia a Bagdad.

-D: Lei ha detto che c'erano ''patrioti anti-Nato, compresi molti generali, che erano partiti per aspettare il rilascio dei prigionieri e per salvare la vita di Moro e l'indipendenza dell'Italia. Invece questi patrioti, inclusi alcuni generali, furono costretti alle dimissioni e costretti ad andare in pensione. Effettivamente ci fu una vasta epurazione nei servizi segreti italiani dopo la morte di Moro. Questa fu conseguenza di quell'estremo tentativo di salvare il Presidente della Dc proprio il 9 maggio, quando Moro venne ucciso?
-R: Si', fu una conseguenza dei fascisti (Carlos li definisce Mussoliniani) che controllavano l'intelligence militare che aveva preparato operazioni per andare a prendere nelle carceri, di notte, alcuni brigatisti imprigionati. Credo che l'informazione sia arrivata ai servizi della Nato da Beirut e probabilmente per l' imprudenza di Bassam Abu Sharif (membro dell'ufficio politico dell'OLP).

-D: Quell'aereo da Beirut sarebbe volato con i capi della Raf nello Yemen del Sud, in Iraq? Moro sarebbe stato liberato?
-R: No, era a disposizione della resistenza palestinese per andare sotto la protezione dello Stato italiano (servizi militari) nel paese opportuno per organizzare il ricevimento dei brigatisti sul punto di essere sottratti dalle carceri dai servizi militari.

-D: Ai primi di maggio del 1978 il figlio di Aldo Moro, Giovanni, e la sua fidanzata chiesero ed ottennero un passaporto valido anche per lo Yemen del Sud, l'unico stato arabo marxista. Ci sono stati contatti tra lei o suoi uomini e uomini legati a Moro per arrivare a questo possibile scambio? Lei, come ha sostenuto il giudice Rosario Priore ha mai avuto contati diretti o indiretti con uomini vicini alla famiglia Moro oppure questi incontri erano stati programmati una volta che i capi della Raf fossero stati liberati?
-R: Giovanni Moro ha lui stesso dichiarato che non e' vero e Rosario Priore soffre di illusioni paranoiche e ripeto che Moro non poteva essere scambiato con nessun rivoluzionario ne' BR ne' RAF.

-D: Si sa che a contattare esponenti di Autonomia per cercare di salvare Moro fu il colonnello dei servizi italiani Giovannone, colui che attese sulla pista di Beirut . Lei ha parlato di ''contatti indiretti'' con i nostri servizi. Uno di questi fu quello che parti' da Giovannone, uomo vicino a Moro, e arrivo' a lei tramite la rete svizzera a cui il colonnello si rivolse per contattarla?
-R: I contatti ''indiretti''erano tra FPLP e Giovannone a Beirut e altri ufficiali che si recarono in visita a Beirut e separatamente vi erano contatti con le BR, con rivoluzionari europei non italiani; per ragioni di sicurezza le BR si erano ''chiuse'' nell'imminenza della tripla operazione consistente nella simultanea cattura di Moro, Agnelli e di un giudice della Corte Suprema. Le azioni dovevano svolgersi simultaneamente in Italia: a Roma…Agnelli, un'altra per strada (Non era Pirelli, ma Agnelli).

-D: Quella stessa mattina del 9 di maggio, a Milano, la Chiesa avrebbe pagato alle Br un riscatto favoloso: 50 miliardi. Era per caso una questione collegata, parallela, alla liberazione degli uomini della RAF? Moro venne ucciso anche per anticipare questi due fatti che avrebbero potuto rendere impossibile l'uccisione del prigioniero? Chi intervenne , secondo lei, italiani, stranieri o stranieri e italiani a far si che questo estremo tentativo di salvare Aldo Moro naufragasse?
-R: Per primo, sono stupito di apprendere che la Chiesa avesse quella cifra per pagare. Benche' fosse un buon cattolico (Moro), l'uomo della chiesa era Andreotti che si e' opposto al salvataggio di Moro.Il tentativo di Beirut e' stato sabotato a Milano e questo e' un dato di fatto; i sovietici avevano interesse a salvare Moro, gli yankees e gli israeliani erano contro e quindi se vi fosse stato un intervento di uno stato straniero si sarebbe trattato della Nato e non del Patto di Varsavia.

-D: Il ministro dell'Interno Francesco Cossiga ha detto anni fa di aver saputo da Markus Wolf, capo della Stasi, che Moro sarebbe stato liberato; c'era un impegno degli israeliani in tal senso. Lei cosa ne pensa?
-R: Questo e' falso, e' esattamente il contrario. Wolf era il nemico della Causa, tenente dell'EKVD (i servizi che precedettero il KGB), venne mandato come inviato della Pravda al Tribunale di Norimberga ove un aiuto-capo delle SS si presento' come testimone contro i leader nazisti per sostenere che gia' alla fine della primavera del 1944 erano stati sterminati 6 milioni di ebrei nei campi di concentramento tedeschi pur sapendo che la maggior parte degli ebrei morirono alla fine del 1944, inizio 1945. La Corte, unanime, espulse questo signore per falsa testimonianza. Wolf pero' diede questa informazione che si muto' in ''verita' evangelica'' e naturalmente la stampa yankee e sionista per una volta copio' la Pravda . Questo SS era stato raggirato da una squadra di interrogatori, tutti ufficiali ebrei-tedeschi, eccetto il sergente in capo Henry Kissinger che non era ufficiale, perche' minore di eta'. Le parole di Wolf, uno degli uomini meglio informati nel mondo sono da intendere con molta prudenza. Lo dico senza odio. I suoi ''servizi di informazione esterni'' erano uno dei migliori del mondo e benche' si fosse opposto vigorosamente alla nostra organizzazione internazionale, ha scritto nelle sue memorie che ''Carlos'' era stato il cliente piu' difficile che avessero mai avuto. Ebbe la delicatezza, un paio di anni prima di morire, di mandarmi i suoi saluti per il tramite di un giornalista.

-D: Durante il rapimento Moro venne individuata a Il Cairo una rete di rivoluzionari che facevano capo a dissidenti marxisti usciti dall'Olp, rete che aveva il suo cuore operativo in esponenti svizzeri, probabilmente gli stessi poi contatti per arrivare a lei. Questo gruppo aveva contati con le Br a Roma tramite due caselle postali. Valerio Morucci, esponente delle Br, risulta anche inserito, secondo la magistratura francese, nella sua rete Separat (Ori). Era lui il punto di congiunzione tra queste due organizzazioni? La rete Separat e gli uomini della RAF ad essa collegata furono presenti nella vicenda del rapimento Moro o comunque seguirono da vicino la preparazione e la realizzazione della operazione?
-R: Vi era, al Cairo, un gruppo di rivoluzionari diretti da Abu Nidal (Fatah), controllati dai servizi ''Mukabar'', ragione per la quale non divennero operativi. Tutto cio' che proviene dalla magistratura francese, cioe' dal giudice Bruguiere e dei suoi capi del FBI e' nullo, ne' e' la prova la decisione della ''Corte Criminale'' di Berlino, che ha assolto il mio compagno e fratello J. Weinrich, per gli stessi capi d'accusa per i quali mi vogliono giudicare in Francia. E' certo che il dossier Carlos/Bruguiere non ha nessuna base giudiziaria e i famosi archivi della Stasi ( il servizio segreto della Ddr) in mano alla giustizia tedesca non costituiscono elementi di prova contro di noi.

-D.Una sola domanda sulla strage di Bologna visti i molti riferimenti fatti da lei nel tempo e che sembrano alludere ad una ipotesi da lei mai espressa ma che potrebbe essere alla base delle sue osservazioni. Cioè agenti occidentali che fanno saltare in aria- con un piccolo ordigno- un più rilevante carico di materiale esplodente trasportato da palestinesi o uomini legati all’Fplp e alla sua rete con l’intento di far ricadere su questa ben diversa realtà politica tutta la responsabilità della strage alla stazione.
-R.L’attentato contro il popolo italiano alla stazione di Bologna “rossa”, costruita dal Duce, non ha potuto essere opera dei fascisti e ancora meno dei comunisti. Ciò è opera dei servizi yankee, dei sionisti e delle strutture della Gladio. Non abbiamo riscontrato nessun’altra spiegazione. Accusarono anche il Dottor Habbash , nostro caro Akim, che, contrariamente a molti, moriva senza tradire e rimanendo leale alla linea politica del FPLP per la liberazione della Palestina. Vi erano dei sospetti su Thomas C., nipote di un’eroe della resistenza comunista in Germania dal febbraio 1933 fino al maggio 1945, per accusarmi di una qualsiasi implicazione riguardo ad un’aggressione così barbarica contro il popolo italiano: tutto ciò è una prova che il nemico imperialista e sionista e le sue “lunghe dita” in Italia sono disperati, e vogliono nascondere una verità che li accusa

L’intervista si chiude con una domanda di Carlos e la firma apposta subito sotto:

”Perché 65 anni dopo l’invasione dell’Italia, rimangono tuttora 113 basi e strutture militari yankee nella patria di Garibaldi, di Mussolini, di Gramsci, di Togliatti e di Moro?”.

di Paolo Cucchiarelli

Poissy, giugno 2008