Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

martedì 8 luglio 2008

Moro? Sapevo di averlo condannato a morte

Presidente Cossiga, auguri per i suoi ottant'anni. Lei è sempre malatissimo, e tende sempre a relativizzare il suo cursus honorum — Viminale, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Quirinale —. Eppure la vita le ha dato longevità e potere. Come se lo spiega?
«Ma io sono ammalatissimo sul serio! Nove operazioni, di cui cinque gravi, una della durata di sette ore, seguita da tre giorni di terapia intensiva. Ma resisto. Come si dice in sardo: "Pelle mala no moridi"; i cattivi non muoiono. E io buono non sono. Io relativizzo tutto quello che non attiene all'eterno. E poi, come spiego in un libro che uscirà a ottobre, "A carte scoperte", scritto con Renato Farina, tutte le cariche le ho ricoperte perché in quel momento e per quel posto non c'era nessun altro disponibile. Io uomo di potere? Sempre a ottobre uscirà un altro libro — "Damnatio memoriae in vita" — con tutti gli articoli, lettere e pseudo saggi di insulti e peggio pubblicati durante il mio settennato contro di me da Repubblica ed Espresso ».

A trent'anni dalla morte di Moro, il consulente che le inviò il Dipartimento di Stato, Steve Pieczenick, ha detto: «Con Cossiga e Andreotti decidemmo di lasciarlo morire». Quell'uomo mente? Ricorda male? Ci fu un fraintendimento tra voi? O a un certo punto eravate rassegnati a non salvare Moro?«Quando, con il Pci di Berlinguer, ho optato per la linea della fermezza, ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte. Altri si sono scoperti trattativisti in seguito; la famiglia Moro, poi, se l'è presa solo con me, mai con i comunisti. Il punto è che, a differenza di molti cattolici sociali, convinti che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile, io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era così: la dignità dello Stato, come ha scritto, non valeva l'interesse del suo nipotino Luca».

Esclude che le Br furono usate da poteri stranieri che volevano Moro morto?
«Solo la dietrologia, che è la fantasia della Storia, sostiene questo. Tutta questa insistenza sulla "storia criminale" d'Italia è opera non di studiosi, ma di scribacchini. Gente che, non sapendo scrivere di storia e non essendo riusciti a farsi eleggere a nessuna carica, scrivono di dietrologia. Fantasy, appunto ».

Quale idea si è fatto sulle stragi definite di «Stato», da piazza Fontana a piazza della Loggia? La Dc ha responsabilità dirette? Sapeva almeno qualcosa?«Non sapeva nulla e nessuna responsabilità aveva. Molto meno di quelle che il Pci (penso all'"album di famiglia" della Rossanda) aveva per il terrorismo rosso».

Perché lei è certo dell'innocenza di Mambro e Fioravanti per la strage di Bologna? Dove vanno cercati i veri colpevoli?«Lo dico perché di terrorismo me ne intendo. La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della "resistenza palestinese" che, autorizzata dal "lodo Moro" a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo. Quanto agli innocenti condannati, in Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi. E nella rossa Bologna la strage doveva essere fascista. In un primo tempo, gli imputati vennero assolti. Seguirono le manifestazioni politiche, e le sentenze politiche».

Scusi, i palestinesi trasportavano l'esplosivo sui treni delle Ferrovie dello Stato?
«Divenni presidente del Consiglio poco dopo, e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così. Anche le altre versioni che raccolsi collimavano. Se è per questo, i palestinesi trasportarono un missile sulla macchina di Pifano, il capo degli autonomi di via dei Volsci. Dopo il suo arresto ricevetti per vie traverse un telegramma di protesta da George Habbash, il capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina: "Quel missile è mio. State violando il nostro accordo. Liberate subito il povero Pifano"».

C'è qualcosa ancora da chiarire nel ruolo di Gladio, di cui lei da sottosegretario alla Difesa fu uno dei padri?«I padri di Gladio sono stati Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Gaetano Martino e i generali Musco e De Lorenzo, capi del Sifar. Io ero un piccolo amministratore. Anche se mi sono fatto insegnare a Capo Marrangiu a usare il plastico».

Il plastico?«I ragazzi della scuola di Gladio erano piuttosto bravi. Forse oggi non avrei il coraggio, ma posseggo ancora la tecnica per far saltare un portone. Non è difficile: si manipola questa sostanza che pare pongo, la si mette attorno alla struttura portante, quindi la si fa saltare con una miccia o elettricamente... ».

E' sicuro che il plastico di Gladio non sia stato usato davvero?
«Sì, ne sono sicuro. Gli uomini di Gladio erano ex partigiani. Era vietato arruolare monarchici, fascisti o anche solo parenti di fascisti: un ufficiale di complemento fu cacciato dopo il suo matrimonio con la figlia di un dirigente Msi. Quasi tutti erano azionisti, socialisti, lamalfiani. I democristiani erano pochissimi: nel mio partito la diffidenza antiatlantica è sempre stata forte. Del resto, la Santa Sede era ostile all'ingresso dell'Italia nell'Alleanza Atlantica. Contrari furono Dossetti e Gui, che pure sarebbe divenuto ministro della Difesa. Moro fu costretto a calci a entrare in aula per votare sì. E dico a calci non metaforicamente. Quando parlavo del Quirinale con La Malfa, mi diceva: "Io non c'andrò mai. Sono troppo filoatlantico per avere i voti democristiani e comunisti"».

Qual è secondo lei la vera genesi di Tangentopoli? Fu un complotto per far cadere il vecchio sistema? Ordito da chi? Di Pietro fu demiurgo o pedina? In quali mani?«Credo che gli Stati Uniti e la Cia non ne siano stati estranei; così come certo non sono stati estranei alle "disgrazie" di Andreotti e di Craxi. Di Pietro? Quello del prestito di cento milioni restituito all'odore dell'inchiesta ministeriale in una scatola di scarpe? Un burattino esibizionista, naturalmente ».

La Cia? E in che modo?
«Attraverso informazioni soffiate alle procure. E attraverso la mafia. Andreotti e Craxi sono stati i più filopalestinesi tra i leader europei. I miliardi di All Iberian furono dirottati da Craxi all'Olp. E questo a Fort Langley non lo dimenticano. In più, gli anni dal '92 in avanti sono sotto amministrazioni democratiche: le più interventiste e implacabili».

Quando incontrò per la prima volta Berlusconi? Che cosa pensa davvero di lui, come uomo e come politico?«Era il 1974, io ero da poco ministro. Passeggiavo per Roma con il collega Adolfo Sarti quando incontrai Roberto Gervaso, che ci invitò a cena per conoscere un personaggio interessante. Era lui. Parlò per tutta la sera dei suoi progetti: Milano 2 e Publitalia. Non ho mai votato per Berlusconi, ma da allora siamo stati sempre amici, e sarò testimone al matrimonio di sua figlia Barbara. Certo, poteva fare a meno di far ammazzare Caio Giulio Cesare e Abramo Lincoln...».

Ci sono accuse più recenti.«Non facciamo i moralisti. Il premier britannico Wilson fece nominare contessa da Elisabetta la sua amante e capo di gabinetto. Noi galantuomini stiamo con la Pompadour. Quindi, stiamo con la Carfagna ».

Lei non è mai stato un grande estimatore di Veltroni. Come le pare si stia muovendo? Resisterà alla guida del Pd, anche dopo le Europee?«E che cosa è il Pd? Io mi iscriverei meglio a ReD, il movimento di D'Alema, di cui ho anche disegnato il logo: un punto rosso cerchiato oro. Veltroni è un perfetto doroteo: parla molto, e bene, senza dire nulla. Perderà le Europee, ma resisterà; e l'unica garanzia per i cattolici nel Pd che non vogliono morire socialisti».

Perché le piace tanto D'Alema?
«Perché come me per attaccare i manifesti elettorali è andato di giro nottetempo con il secchio di colla di farina a far botte. Perché è un comunista nazionale e democratico, un berlingueriano di ferro, e quindi un quasi affine mio, non della mia bella nipote Bianca Berlinguer che invece è bella, brava e veltroniana. E poi è uno con i coglioni. Antigiustizialista vero, e per questo minacciato dalla magistratura ».

Cosa pensa dei giovani cattolici del Pd? Chi ha più stoffa tra Franceschini, Fioroni, Follini, Enrico Letta?
«Sono una generazione sfortunata. Il loro futuro è o con il socialismo o con Pierfurby Casini».

Come si sta muovendo suo figlio Giuseppe in politica? E' vero che lei ha un figlio "di destra" e una figlia, Annamaria, "di sinistra"?«Li stimo molto entrambi. Tutti e due sono appassionati alla politica come me. Mia figlia è di sinistra, dalemiana di ferro, e si iscriverà a ReD. Mio figlio è un conservatore moderno, da British Conservative Party. Io pencolo più verso mio figlio».

E' stato il matrimonio il grande dolore della sua vita?
«Non amo parlare delle mie cose private. Posso solo dire che la madre dei miei figli era bellissima, intelligentissima, bravissima, molto colta. Che ha educato benissimo i ragazzi. E che io l'ho amata molto».

Aldo Cazzullo
08 luglio 2008

domenica 6 luglio 2008

Aldo Moro: il diritto penale dal volto umano

Vi posto questa mia recensione al libro:
A. Moro, Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale di Aldo Moro, Cacucci, Bari, 2005, raccolte e curate da Francesco Tritto.


Il libro, che l’editore Cacucci (non a caso l’editore delle lezioni di Filosofia del diritto tenute da Moro a Bari negli anni Quaranta) ha pubblicato in modo pregevole, contiene una ricca Introduzione in cui Tritto, da una parte, ricostruisce la sua collaborazione con Moro e offre una toccante e diretta testimonianza che illumina il rapporto dello statista con i suoi studenti e con i giovani, della sua capacità di guardare al di là, di cogliere prospettive nuove, di anticipare problematiche, di individuare soluzioni. Ne esce una fotografia particolarmente affascinante che ci mostra un Moro notevolmente diverso da quello ‘ufficiale’. Dall’altra parte, il lavoro introduttivo di Tritto è di grande interesse soprattutto per cogliere l’importanza delle lezioni quale contributo più sistematico di Moro alla scienza penalistica italiana alla quale aveva pur donato in passato notevoli monografie, per riconoscimento unanime della dottrina, su singole questioni (si pensi ai lavori sulla unità e pluralità dei reati e a quello sulla subiettivizzazione della norma penale o della antigiuridicità penale).
L’importanza di queste lezioni, seppur pubblicate a diversi anni di distanza, è sottolineata, adeguatamente, del resto, da Giuliano Vassalli che nella Presentazione ricorda che finalità essenziale del lavoro è proprio quella di permettere agli studiosi di diritto penale di conoscere con maggiore completezza e autenticità il pensiero penalistico “di un grande cultore della materia”.
La lettura delle lezioni, che Tritto si augurava approfondita dai penalisti in modo obiettivo, permetterà di inquadrare il pensiero di Moro nel più ampio dibattito dottrinario riguardante i principali temi ed istituti penalistici.
In questa sede preme rilevare un aspetto caratterizzante queste lezioni, e più in generale il pensiero filosofico di Moro che sta sullo sfondo ma è ben visibile (al di là del fatto che, come ci ricorda Tritto, la prima parte del corso delle lezioni, prevedeva un programma che riprendeva i temi generali sul diritto e sullo stato trattati nelle lezioni di filosofia del diritto). La profonda formazione filosofico-giuridica gli consente, infatti, di analizzare i problemi della materia affrontata in modo complesso, tenendo presente tutte le angolature, ponendo costantemente e lucidamente l’attenzione sulle diverse implicazioni sociali e politiche. Nel Moro delle lezioni si realizza, in perfetta coerenza col suo pensiero filosofico e con la sua esperienza politica, una perfetta complementarietà di diritto-politica e morale in quanto le categorie della giuridicità e della politica sono, ed è qui che si sente maggiormente la lezione di Giuseppe Capograssi, espressione della vita etica e cioè di quel processo attraverso il quale “il soggetto realizza la sua vita più vera, ascendendo dal piano della sua particolarità empirica a quello della universalità, che rappresenta il suo valore propriamente umano […] l’eticità è in ogni caso slancio spontaneo della persona che, superando le angustie del suo limite particolare, spazia nell’universale”.
Ecco perché la sua preoccupazione è per i principi, per le ‘cose essenziali’. È sempre in primo piano la sua convinzione sulla necessità che l’esperienza giuridica, e quindi anche e soprattutto quella che si evidenzia nel diritto penale, mantenga ferma la sua finalità che è il richiamo incessante alla persona umana. L’idea di fondo è che la persona umana rappresenti allo stesso tempo il principio e il fine dell’esperienza giuridica stessa.
Queste premesse sono alla base della sua concezione ‘umanistica’ del diritto penale che Tritto ha evidenziato nella Introduzione e che tanti studiosi (Bettiol, Vassalli, Conso, Contento) hanno sempre colto nell’opera morotea. Le lezioni rappresentano la sede più importante nella quale questa concezione, già presente nelle monografie del primo periodo, viene compiutamente elaborata, anche alla luce della straordinaria esperienza politica e istituzionale acquisita da Moro (al tempo delle lezioni pubblicate era Presidente del Consiglio dei Ministri). Scrive Tritto: “sia che Egli rivolga l’attenzione all’autore del reato (persona libera di autodeterminarsi e di scegliere, quindi, tra il bene e il male), sia che si tratti di indagare sulle singole categorie o istituti penalistici, ogni Sua riflessione è incentrata sulla persona umana, sulla sua dignità, sui valori, su giustizia, libertà, verità” (p. 62).
Emblematica, in questa prospettiva, la concezione etico-retributiva della pena con la quale, insolitamente, iniziava il corso di diritto penale. Per Moro la pena non è “il male per il male, la rinuncia, la limitazione della personalità odiosamente praticata in se stessa. La pena è questa limitazione della personalità finalizzata ad una ragione più alta, che è quella della cancellazione del male, della eliminazione, sul piano ideale, del male che si è verificato nella vita sociale: il male al quale subentra il bene. La pena, con le sue limitazioni, con i suoi svantaggi, è il segno del bene che riprende il suo dominio nella vita umana e nella vita sociale, riprende il suo dominio e cancella il male. Quindi non è una crudeltà, anzi, non può essere una crudeltà, la pena, perché essa è finalizzata ad una riaffermazione del bene nella vita e, quindi, non è male come male, ma limitazione e svantaggio per il bene che rappresenta, per il bene che reintroduce, per l’ordine che ristabilisce nella vita umana e nella vita sociale” (p. 102).
Resta anche nelle lezioni, in parte attutito solo dal suo entusiasmo e dalla predilezione per i giovani, un senso di pessimismo, direi di matrice paolina, verso il mondo delle istituzioni, della politica e del diritto. È un motivo ricorrente nella produzione morotea già da quando, giovane docente di Filosofia del diritto, scrisse queste parole: “Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostre ideali esigenze: la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare. Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. E’ un dolore che non si placa, se non un poco, quando sia confessato ad anime che sappiano capire o cantato nell’arte o quando la forza di una fede o la bellezza della natura dissolvono quell’ansia e ridonino la pace. Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino”.

Mario Sirimarco