Trentaquatttro anni fa veniva assassinato, dalle B.R., dopo
cinquantacinque giorni di sequestro, di “prigionia nel carcere del
popolo”, Aldo Moro.
Trentaquattro anni non sono bastati a
dissipare lati oscuri di questa tragica vicenda, a spazzar via la
tendenza, subito manifestatasi, a farne oggetto di elucubrazioni
dietrologiche, trascurando, magari, riflessioni e deduzioni semplici e
lineari da dati certi ed incontestati.
Soprattutto appare oggi sconcertante che siano rimaste intatte
certe frettolose interpretazioni manifestamente strumentali, fabbricate
sin dai primi giorni dopo la clamorosa operazione di cattura da parte
delle B.R. Moro che “è un’altra persona” dopo che si trova nelle mani
dei terroristi; e l’impossibilità, subito data per certa, di trovare
concreti spiragli per una trattativa per la salvezza del rapito, ed
ancora altre proposizioni. Esse non hanno subìto autentica revisione
critica.
Poco o nulla si è scandagliato il terreno assai
complesso delle diverse posizioni emerse all’interno
dell’organizzazione terroristica sullo sbocco da dare all’”operazione”
ed, in particolare, sull’esistenza di una consistente frazione che
avesse sostenuto il rilascio di Moro, una conclusione diversa
dall’assassinio.
Si è invece divagato sulle dietrologie. In
particolare si è fatto oggetto di discussioni ipotesi di interferenze
o, addirittura, di regie straniere, dando ad esse credito, fino a fare
pressoché un articolo di fede, per certi settori della Sinistra, alla
meno probabile tra le ipotesi di questi interventi di servizi
stranieri. Quella della “vendetta” della C.I.A. per avere Moro
strenuamente sostenuto il “compromesso storico”, l’alleanza tra D.C. e
P.C.I.
Ma, soprattutto, si è omesso di cercare la risposta a
certi interrogativi nelle logiche cui obbedì il comportamento dei
brigatisti, per correre dietro a fumose e contraddittorie ricostruzioni
ideologico-giudiziarie.
Gli anni che sono trascorsi da quegli
avvenimenti hanno visto l’evolversi della storia del nostro Paese in
termini tali che, in effetti, elementi di riflessione e di raffronto di
entità e valore determinanti si sono venuti ad aggiungere a quelli di
chi poté disporre, ad esempio, Leonardo Sciascia, che ha fornito le
riflessioni e le interpetrazioni, tutto sommato, più penetranti ed
originali sul “Caso Moro”.
In particolare “Mani Pulite”, la
fine della “Prima Repubblica”, il franamento della Democrazia Cristiana
e del sistema di potere da essa instaurato con il meccanismo delle
alleanze, hanno consentito di individuare elementi di fragilità di quel
sistema politico che la durata trentennale di essa, maturata allorché
il Presidente della D.C. divenne bersaglio dei terroristi, non aveva
lasciato percepire, benché quasi tutto consenta di ritenere che già
allora esso non fosse inimmaginabile né che dovessero ancora maturare
le cause del colasso.
Un franamento del sistema politico D.C.
senza un cataclisma che, al contempo, spazzasse via il “mondo
occidentale”, il Patto Atlantico, i “regimi liberi”, non era allora nei
piani e nelle previsioni di nessuno o almeno, non aveva consistenza
tale da rappresentare una reale alternativa politica.
Ciò
comportava che anche l’obiettivo dell’operazione terroristica del
sequestro Moro non era facilmente e chiaramente configurabile come
quello che potesse provocare una sorta di “effetto domino” sul regime
italiano, democristiano che, un effetto poco più di dieci anni dopo
eventi assai meno eclatanti avrebbero determinato.
Il Muro di
Berlino sembrava destinato a dividere il mondo in due parti opposte
ancora per almeno un secolo, salvaguardando anche l’esistenza dei
sistemi politici conseguenti e “compatibili” con l’una e l’altra parte.
Così il “processo” che le Brigate Rosse intentarono ad Aldo Moro,
fu, sostanzialmente quello fondato sulla contestazione di essere un uomo
politico occidentale. Magari di un Occidente un po’ ambiguo,
contraddittorio ed equivoco, quale quello della D.C., del Vaticano, del
“compromesso storico”, con le relative “zone d’ombra” che certi
equivoci hanno determinato (e determinano) con la concretezza e con i
miti delle “stragi di Stato” che contribuirono a produrre e
sciaguratamente “coprire” o lasciar intendere che fossero “coperti”.
C’è da dire che anche in fatto di “stragi di Stato”, espressione
allora assai di moda in certi ambienti della Sinistra, il “processo”
intentato a Moro dalle B.R. non ottenne un qualsiasi risultato
apprezzabile.
La conclusione (Comunicato n. 6 delle B.R.) della
“colpevolezza” di Moro quale esponente dello “Stato imperialista delle
multinazionali” e delle nefandezze ad esso ascrivibili etc. etc, era,
dunque, quella di un nulla di fatto, un buco nell’acqua, posto che si
trattava di attribuzioni “naturali” ad uno Stato “borghese” secondo il
trito linguaggio da manuale di marxismo-leninismo per aspiranti
guerriglieri.
Oggi si stenta a credere che, avendo tra le mani
un esponente “nemico” del calibro di Moro, come Moro determinato a non
lasciare intentata alcuna via che lo portasse a salvarsi la vita, i
carcerieri non abbiano saputo cavarne che quella grottesca “ammissione”
sul carattere “antioperaio” del regime, su “Gladio”, secondo gli
schemi della loro approssimativa cultura pseudomarxista, tralasciando i
tanti “misteri”, le tante vere o presunte pagine del gran libro della
corruzione, del quale il Paese conosceva o intuiva l’esistenza e
rispetto alle quali la reattività della gente era assai più sensibile
ed, anzi, pronta a quelle generalizzazioni che poi sono diventati i più
rilevanti e radicati convincimenti del “credo” popolare.
Ma,
allora, ammettere ciò avrebbe rappresentato per gli uomini della B.R. e
delle altre organizzazioni terroristiche qualcosa di più di una
dichiarazione di fallimento. Essi avrebbero dovuto ammettere che lo
stesso presupposto della loro avventura eversiva era totalmente
sbagliato, che anche in quello che si ostinavano a credere fosse il
proletariato in attesa di prendere le armi per la rivoluzione,
prevalevano sensibilità e “miti” piccolo-borghesi, e che anziché lo
squillo della rivolta di classe, la gente attendesse materia per le sue
intemerate moralistiche.
Né si può dire che il problema della
corruzione non fosse ancora rilevante e largamente avvertito. C’era
stato il caso Lockheed per il quale proprio Moro aveva in Parlamento
pronunziato un discorso durissimo, che giustamente Leonardo Sciascia
riportò nel suo libro sull’Affaire Moro, come il discorso
sull’”innocenza della D.C.”.
Ed è singolare che, invece, Moro si
attendesse che il “processo” che i terroristi si accingevano ad
intentargli avrebbe fornito con avere per oggetto storie di potere e di
corruzione.
Che a cosa alludeva Moro (lettera a Zaccagnini)
quando scriveva… “sono sottoposto ad un difficile processo politico del
quale sono prevedibili sviluppi e conseguenze” e quel che lasciava
intendere nella lettera (la prima) a Cossiga, lettera il cui contenuto
che Sciascia così sintetizza: … “il processo è per ora politico…
diventerà più stringente quando si passerà a quei fatti specifici che
investono specifiche e personali responsabilità… in cui mi si può
indurre a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e
pericolosa”?
Questo pensava Moro, ed, in fondo lo sperava.
Sperava che fosse evidente ai suoi amici della D.C. (che presto
sarebbero diventati suoi nemici) che avrebbe potuto essere indotto a
rivelare cose “sgradevoli e pericolose”. Sul loro conto. Cose che la
ragione di stato, quella in nome della quale, in buona sostanza, aveva
imbastito il suo discorso in difesa di Gui, a quella che ora veniva
sbandierata dal “partito della fermezza”, oltre che il tornaconto
personale, avrebbero consigliato non si giungesse mai al punto che
fossero pronunziate e proclamate.
Anche semplicemente
proclamate, perché con un minimo di abilità sulla base di una semplice
discreta informazione su eventi di corruzione che già avevano incrinato
la tranquillità della vita del regime, le B.R. avrebbero potuto
attribuire a Moro quello che avesse voluto, ammesso che, per salvarsi
la vita, non fosse indotto a collaborare così attivamente con i suoi
carcerieri.
Si andava consumando così in quei giorni la
rappresentazione, al contempo sperata, temuta, ignorata, del dramma del
“pentitismo” di cui di lì a poco si sarebbero avute le prime
avvisaglie con le inchieste per i crimini del terrorismo, per dilagare
poi in modo dirompente negli anni ’90 nei processi per mafia. Nei quali
pure non sono mancate, da parte dei media, le attribuzioni ai pentiti
di dichiarazioni più specifiche e maliziose di quelle che pure erano
disposti a fare. La differenza era però nell’atteggiamento di chi
quelle dichiarazioni avrebbe dovuto riceverle. Le B.R. non sapevano che
farsene e non volevano doverne fare qualcosa di dichiarazioni “capaci
di far scandalo”. I pentiti attaccano inesorabilmente l’asino dove
vuole il padrone, non subiscono una autentica pressione.
Figuriamoci quando il padrone può farne tranquillamente e volentieri a meno delle loro dichiarazioni.
Molti, poi, riconobbero che grande era stato il pericolo che allora
corse la nostra Repubblica. Lo dissero quanti avevano condiviso le
responsabilità del “partito della fermezza”, pericolo, essi lasciano
intendere, di farsi coinvolgere e travolgere negli sviluppi di una
trattativa che pure avrebbe conferito alle B.R. l’unica cosa che esse
cercavano: il ruolo di parte combattente, di interlocutore armato dello
Stato.
In realtà il pericolo più grave e incombente fu quello
che in realtà le stesse B.R. non vollero e non seppero far correre al
sistema politico della D.C., approfittando del “processo” a Moro per
rappresentarne al Paese il marciume, la corruzione, le doppiezze che
Moro avrebbe potuto “confessare” o che avrebbero potuto essere
attribuite come contenuto delle sue dichiarazioni.
Immaginare
una sorta di “Mani Pulite” anticipate di una dozzina d’anni, provocate
da un simile “processo” è, come tutte le ipotesi di un diverso corso
della storia, in gran parte vana esercitazione di fantasia.
Certo è però che allora affiorarono crepe del sistema, rappresentate
dalle stesse paure di molti uomini politici, dalla fretta in cui la
manifestarono, proclamando Moro “inattendibile”, malgrado la stessa
“delusione”, largamente avvertita, anche fuori degli ambienti ai
terroristi più vicini, dell’inconcepibile inconcludenza del “processo” a
Moro.
E fu una sorta di beffa della sorte e della storia che
quella tragica anticipazione di un pericolo destinato ad essere poi
riconosciuto simile a ciò che fu poi “Mani Pulite” dovesse consumarsi
sulla vita di una persona che nel dibattito Parlamentare sulla messa in
stato d’accusa di Gui aveva pronunziato quel discorso di sdegnata
ripulsa dell’accusa, consistente in quel sillogismo, degno del grande
“sofista di Stato” che Moro, che uomo di Stato non fu, deve essere
considerato. La D.C., Egli aveva detto in sostanza, è dal voto popolare e
dalla storia costituita detentrice del potere. La D.C. è dunque
innocente. Gui è democristiano ed è quindi innocente. E’ significativo
che Leonardo Sciascia, che non arrivò a vedere “Mani Pulite”, ma che
aveva colto tutte le logiche che le resero possibile quell’evento ed al
contempo così a lungo lo ritardarono, premettesse quel discorso di Moro
al bellissimo e terribile libretto che dedicò alla sua drammatica
fine.
Del resto, se è vero che le B.R. non seppero e non vollero
gestire il processo a Moro nell’unico modo in cui avrebbe potuto avere
effetti e ricadute dirompenti, non capirono neppure che anche il solo
fatto del rilascio di Moro avrebbe assai probabilmente anticipato la
percezione del fallimento del vagheggiato avvio all’insurrezione armata
del proletariato, ma avrebbe costituito per sé stesso una mina vagante
nel complicato e fragile sistema di equivoci e di equilibri cui già
era ridotto il regime, indebolendolo d anticipandone la fine.
Non capirono neanche questo.
Forse lo capirono alcuni elementi dei Servizi stranieri che ebbero
qualche possibilità di influire sulla vicenda ed il suo esito. Può
darsi che qualche tendenza a risparmiare la vita di Moro, di cui pure
si ha notizia, si ricollegasse effettivamente a meno rozze menti
operanti in tali servizi, che dell’”operazione” incominciata il 16
marzo avrebbero voluto fosse prodotto il massimo effetto
destabilizzante possibile. Qualche legame tra i brigatisti forse più
disponibili a lasciare in vita Moro ed il K.G.B. non è soltanto
ipotizzabile.
La Prima Repubblica, dunque in quelle contingenze
che segnarono il momento del suo più grave pericolo, dovette la sua
salvezza, più ancora che al cinismo con il quale abbandonò alla sua
sorte il suo più tipico e valido “sofista di Stato”, alla incapacità
dei terroristi di comprendere e sfruttare le sue debolezze, sfruttando,
di conseguenza l’iniziale clamoroso successo della loro operazione.
La loro ottusità fu la salvezza del regime.
di Mauro Mellini
http://www.giustiziagiusta.info/index.php?option=com_content&task=view&id=5519&Itemid=1
Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.
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