Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

venerdì 9 settembre 2011

Aldo Moro. Un profilo culturale e politico



cosmopolis

L’enormità del “caso Moro”, vale a dire l’attenzione indiscutibilmente giustificata rivolta sia alla vicenda del rapimento e sequestro da parte del commando Br, sia al successivo dibattito politico e giuridico-costituzionale, al comportamento delle forze dell’ordine e degli apparati dello Stato, poi ai cinque pubblici processi e alle due commissioni parlamentari d’inchiesta, ha prodotto la conseguenza di non prestare la dovuta attenzione e approfondimento critico e storico all’operato politico complessivo di Moro, alle sue idee, al suo progetto politico. Eppure l’uomo Aldo Moro ci deve interessare soprattutto per come ha incarnato la politica, per quello che ha detto e fatto nel suo concreto impegno politico.

Facendo una estrema semplificazione, in queste pagine si intende soffermare lo sguardo sull’opera di Moro nel periodo 1945-1947, poi su taluni orientamenti della sua politica negli anni 1959-1978.

Moro, nato nel settembre 1916, entra nella Costituente nel giugno 1946 non ancora trentenne, ma già libero docente di diritto penale, già presidente nazionale della Fuci dalla tarda primavera del 1939 al 1942 e dal 1945 presidente nazionale del Movimento laureati di Azione cattolica con l’aggiunta della direzione della rivista “Studium”, un osservatorio di indiscutibile interesse dove i suoi articoli di carattere politico-sociale-religioso evidenziano una solida formazione culturale e una capacità di muoversi agevolmente sul terreno dei diritti e delle idee politiche, scrivendo sui valori di fondo del mondo cattolico e attento ai principi che costituivano il nucleo centrale della dottrina sociale della Chiesa.

Questo «giovane intellettuale» «con un fortissimo senso della vita morale»[1], che già dal 1939 aveva fatto un’ottima impressione a Roma nel mondo cattolico[2], nel periodo 1945-1947 sia negli scritti pubblicati nella rivista “Studium” sia negli interventi all’Assemblea costituente tratta temi che costituiscono il nucleo della propria filosofia politica e che anticipano quella visione della politica e delle cose che Moro cerca di perseguire con lucidità e maturità negli anni 1959-1978 quando diviene il punto essenziale di riferimento nella politica italiana. Durante gli anni universitari e della Fuci (a fianco di Montini), Moro matura una formazione culturale, politica, religiosa – che risente dello stimolo culturale e morale di Maritain[3] – e giuridica (sono gli anni della riflessione su Stato e individuo in “Azione fucina” e del volume di dispense Lo Stato. Corso di lezioni di filosofia del diritto tenute presso la R. Università di Bari nell’anno accademico 1942-43) ed acquisisce una cultura della mediazione ed una sensibilità per le cose umane, che poi ritroviamo maggiormente sviluppate negli anni del più importante impegno politico.

Ha scritto Giovanni Battista Scaglia: Moro «dalla politica non era partito e nella politica non si era mai annullato»[4], cogliendo bene in sintesi le linee dell’itinerario culturale del personaggio che dal profondo della propria formazione spirituale-religiosa si apre al mondo e a tutti i problemi ad esso connessi, compresi quelli politici. Negli scritti del periodo post-universitario, mentre la guerra sta volgendo all’epilogo e il paese deve darsi il nuovo assetto istituzionale e costituzionale, Moro con ragionamenti ampi e convincenti, in continuità e coerenza con gli atteggiamenti assunti nel periodo fucino e perfettamente in linea con le posizioni cattoliche espresse dalla gerarchia, interpreta, approfondisce, studia, scrive sugli orientamenti dei cattolici, sui loro compiti, sui problemi del paese, ponendo anch’egli problemi, ma prospettando e ricercando anche le soluzioni con pazienza e con fede e per amore di verità. “Verità”, “dignità della persona”, “democrazia”, “libertà”, “intelligenza” sono termini e concetti ricorrenti nel suo vocabolario politico e culturale. È un linguaggio politico diverso, ma anche nuovo per il ceto dirigente cattolico. Oltre al linguaggio, c’è un sorprendente giovane intellettuale che, riflettendo molto l’influenza di Jacques Maritain, ha chiarezza dei valori e della gerarchia dei valori, della relazione tra Stato, società civile e individuo e Chiesa e religione: un intellettuale politico che pensa e propone e non ha interessi propri (o di parte) da far valere.

Nel dicembre 1945, rispondendo ad Arturo Carlo Jemolo, che in un articolo sulla rivista “Il Ponte” esprime un «cortese apprezzamento» dell’impostazione di “Studium”, Moro precisa come la rivista intenda muoversi e quale sia la sua funzione: ma in effetti egli non fa altro che esplicitare la propria metodologia culturale di approccio ai problemi, le proprie categorie di analisi: «Veramente “Studium” vuole essere serena, obbiettiva, aperta, presente al travaglio fecondo di tutte le idee e di tutte le esperienze […]. Senza pregiudizi e senza disdegni “Studium” vuole […] esprime[re] la voce della tradizione cattolica con l’ansia di comprendere e di lasciarsi comprendere proprio di chi non si sente nemico in un mondo di nemici, ma uomo tra uomini in una umanità che resta comune malgrado il dissenso e, magari, l’errore». Nel prosieguo dello scritto, è interessante sottolineare come egli colga fin d’allora l’estrema importanza del dialogo, del confronto, dell’intesa con chi ha concezioni diverse anche a costo di rinunciare ad aspetti della propria fisionomia: «Niente può dividere quando si cerca insieme la verità. Ed il cristiano può bene come dimenticare di possedere la verità, per fare della strada con coloro che cercano e non sanno di avere. Forse il cammino compiuto fino alla meta dividerà ancora. Ma può in quel punto cominciare un nuovo cammino, o forse continuare quello stesso che è cominciato ad un punto, perché è molto difficile dire di aver perduto o trovato per sempre»[5]. Se al posto della parola “Studium” si mette la voce “Aldo Moro” ne esce un completo autoprofilo culturale.

Questi scritti tra 1945 e 1947 presentano una preminente matrice etico-religiosa e proprio la loro natura pre-politica determina un rilievo ben definito: fanno capire donde e con quali paradigmi si muove anche la riflessione politica del giovane Moro. Non è un caso che il primo numero di “Studium” del 1945 si apra con un editoriale di Moro dal titolo Liberazione e, a seguire, un suo saggio più corposo sulla concezione cristiana del lavoro. L’editoriale non adombra il tema politico-militare della liberazione del paese, anche se non prescinde da «questa tragica ora» e dal «peso grave di mille oppressioni» e dalla «ferocia di questa storia umana senza umanità»; ma ricorda che si sente enunciare un programma, una richiesta di libertà (libertà dalla paura, libertà dal bisogno); che per tali ideali «uomini hanno preso le armi in tutti i paesi del mondo» e «dove gli uomini si uccidono, la vita è sospesa ed attende, per tanto insopportabile dolore, una liberazione». Dal profondo delle proprie convinzioni religiose Moro non ha remore nel sottolineare che «la più grande delle libertà […] è la libertà interiore che pone l’uomo, in purezza, di fronte a Dio, a se stesso, ai fratelli. Quella che esclude egoismi e ferocie e terrori e miserie, quella che conserva sempre una risorsa per superare i dislivelli della vita. Questa è la libertà dei figli di Dio». Questi passaggi portano all’enunciazione finale, che racchiude il senso dell’editoriale, secondo cui «la suprema liberazione dell’uomo è la vittoria sul male e che gli uomini non sono soli nel conquistarla»[6].

In gran parte degli editoriali e degli interventi sulla rivista è ben percepibile l’intento di Moro di chiarire e approfondire quale debba essere l’atteggiamento di tutti i cittadini, e dei cristiani in particolare, di fronte alla grande responsabilità, alla «possibilità unica della loro storia» di «rifare lo Stato, ricostruire nelle sue linee essenziali la comunità nazionale»[7]. Soprattutto per i cristiani Moro insiste sul «dovere della presenza attiva», che egli sollecita non per tutelare qualche specifico interesse cristiano, ma per costruire una comunità dove libertà, democrazia, rispetto della legge siano il nuovo metro di comportamento: «Fondamentale ed inderogabile è il nostro dovere di presenza attiva che, sempre sussistente, diventa ora più decisivo, perché ci incombe non come sudditi, ma come cittadini di una comunità che è tutta affidata alle risorse di coloro che liberi e responsabili la compongono. / Una comunità senza padroni, senza altra servitù che quella alla legge liberatrice della coscienza morale di tutti i cittadini»[8].

Moro è alquanto ottimista sulla realtà dei cristiani, che egli considera – si è nell’estate 1945 – «una luce di rivelazione accesa nel mondo. […] La nostra scelta quotidiana è tra il contingente e l’eterno, tra la morte e la vita»[9]; però conosce bene anche il travaglio e l’incertezza nel loro atteggiamento; «senza pretendere di giudicare tali atteggiamenti», evidenzia che quel che conta soprattutto «è il “senso” che ha per il cristiano ogni attività, il suo costruire dovunque e comunque per l’eterno»[10] – ripete nella primavera 1947 – e prospetta per i cristiani una visione vasta delle cose[11], un comportamento intelligente, di apertura, di ascolto, per attuare un avanzamento civile e sociale, per dare un contributo al rinnovamento della struttura sociale: «gli avvenimenti politici, per grandi che siano, contano non tanto per il loro effetto immediato, quanto per il modo con il quale incidono sul corso incessante della storia umana. Intuire quale è questo corso, contribuire a determinarlo con intelligenza aperta e cuore libero nel senso più rispondente alla dignità dell’uomo ed alle sue necessità di vita, contribuire con la carità e la verità a quei mutamenti di struttura sociale che solo il cristiano può produrre con strumenti di pacifico progresso, questo è il grande compito e il grande lavoro»[12].

L’uomo e la sua dignità, il «valore incommensurabile della persona» costituiscono motivi sempre presenti in questi e in tutti gli scritti di Moro. Non poteva non essere altrimenti per un giovane maturato nella Fuci di Montini, all’interno della quale le idee di Maritain e del personalismo francese avevano larga circolazione per la formazione di «una coscienza religiosa e insieme una civile»[13]. Una particolare sottolineatura del tema della dignità della persona viene fatta da Moro proprio all’avvio della difficile fase politica dopo la liberazione, evidenziando anche i limiti della politica, allorché durante il governo Parri c’erano ogni giorno problemi in esplosione. «Noi non vogliamo ora rivolgere a questo tempo tormentato facili e pericolose accuse di rinascente esclusivismo totalitario […]. Ma certamente si può e si deve dire che l’esigenza politica torna in Italia ad essere in primo piano e porta con sé, in quanto appunto non sia corretta ed integrata, unilateralità, faziosità, impazienze, eccessi, incomprensioni a scapito di quella pace che tutti ardentemente desideriamo e che la politica stessa […] dovrebbe servire a costruire. […] appunto l’esercizio delle attività politiche è fecondo, a patto che sia a servizio della causa dell’uomo e pronto perciò a riconoscere i propri limiti, ad inchinarsi alle realtà auguste e sacre della vita»[14]. È un lungo e solido editoriale, in cui Moro soprattutto evidenzia il valore della persona e i limiti che la politica (e lo Stato) deve imporsi di fronte alla sfera dell’uomo: «Non si può risorgere nel segno della libertà, se non si progredisca dalla rivendicazione di parziali libertà economiche e politiche alla positiva affermazione del valore incommensurabile della persona e del suo proprio “mondo”; se non si passi dalla difesa di fronte alle pretese esorbitanti della società allo svolgersi costruttivo della persona singola. […] Bisogna che la politica si fermi in tempo, per non guastare queste cose; bisogna che essa, riconoscendo volenterosamente i suoi limiti, lasci all’uomo il possesso esclusivo di questo suo mondo migliore, intimo e originale. […] Ma se la politica vuole essere tutta la vita, se una sola, e sia pure essenziale, libertà lavora per esaurire le altre, più vere e sostanzialmente costruttive, l’uomo è finito e la vita perde la sua chiarezza e ricchezza»[15]. In ogni caso il problema della dignità della persona in quell’estate del 1945 solletica molto Moro, se nello stesso numero della rivista egli scrive una nota, nella rubrica “Osservatorio”, dal titolo Annunciare la dignità di ogni uomo: «se si vuole un vero avanzamento civile, si tratta di far svolgere la persona secondo tutte le sue possibilità, di farle assumere responsabilità differenziate e distinte. Essenziale è che il nostro tempo (tempo cristiano) sia annuncio storicamente efficace della dignità di ogni uomo»[16]. Subito dopo i risultati politici del 2 giugno 1946, nel sottolineare che «una nuova storia del nostro paese» si va profilando ma che esige «una compiuta e viva presenza di tutti i cittadini», ritorna di nuovo sui diritti della persona: «nella comunità nazionale sono riapparsi e si sono consolidati nella chiara affermazione della volontà popolare i diritti della persona umana e le prerogative che ad essa spettano, senza alcuna privilegiata limitazione, in campo economico, sociale, politico e spirituale.[…] Noi vogliamo che l’uomo viva in una umanità che non lo soffochi e non ne renda impossibile, con ingiuste sopraffazioni e con deviazioni mitologiche, il colloquio con Dio. Questa è l’ora della liberazione»[17]. Nel dicembre 1947, date le incertezze della situazione sociale e politica non solo in Italia, Moro rileva le preoccupazioni di molti per la difficoltà della realizzazione dei “valori umani” nella vita comune; nell’occasione precisa ulteriori concetti sulla dignità dell’uomo: «Se l’uomo fosse una piccola cosa, materia o senso o storia che passa, esso non basterebbe davvero a superare le difficoltà del momento. Ma l’uomo è dignità e moralità; e reca in sé la molla stupenda della libertà, l’adesione alla verità, il senso della giustizia piena per tutti»[18]. Questo per dire come Moro cerchi di utilizzare quasi ogni occasione per ribadire la centralità della dignità della persona nello Stato che si andava ricostruendo.

Il problema della valorizzazione della dignità della persona è, per Moro, alla base della vera democrazia. Nella primavera del 1945 lo sottolinea, distinguendo tra Vera e falsa democrazia ed entrando in un dibattito che si protraeva da tempo. Democrazia è «essenzialmente rispetto della libertà di tutti, della dignità di tutti, del dolore di tutti». Al di là della forma, sempre contingente e facilmente eludibile, Moro indica come essenziale lo «spirito della democrazia», che permette di individuare «la vera democrazia». E questo è «lo spirito della fiducia, della collaborazione, del rispetto reciproco; l’emergere della persona umana, di ogni persona umana nel suo pieno rilievo nella sua giusta pretesa di valere, nel peso delle sue responsabilità. Per queste ragioni la democrazia è la cosa più umana e più vera che si possa immaginare, la più espressiva dello spirito di libertà del cristianesimo. Ma nell’atto che si presenta così, la democrazia appare come difficilissima conquista umana, che fa tutt’uno con lo sforzo quotidiano ed ansioso della vita morale»[19]. La costruzione dello Stato democratico non può essere solo enunciata. Un’articolazione democratica sempre più ampia nella società e nello Stato diverrà l’obiettivo politico maggiore di Moro quando sarà ai vertici della DC dal 1959 in poi. Ancora nella primavera del 1947, nell’imminenza della crisi del tripartito, è di sommo interesse il «severo esame di coscienza» che fa circa l’avanzamento del terreno democratico dopo circa due anni dalla liberazione. Egli inizia con l’annotazione che «la sorte della democrazia è nelle nostre mani. Che essa si salvi non solo, ma si consolidi e si sviluppi, dipende da noi, dalla nostra fiducia, dalla nostra lungimiranza, dalla nostra fortezza, dal nostro spirito cristiano. Senza un impegno di tutti gli uomini […] quella salvezza non è possibile». Moro guarda a un bilancio complessivo, ma gli preme soprattutto evidenziare cosa sia mancato da parte cristiana in «fiducia e collaborazione». Fa delle considerazioni amare per gli ambienti cattolici. Infatti precisa: «Fiducia e collaborazione di noi, uomini e cristiani, sono troppe volte mancate. La democrazia ci è sembrata cosa estranea o incapace di essere influenzata da noi, rimessa alle istituzioni, alle leggi, all’azione decisiva di alcuni particolarmente responsabili. O è apparsa essa come un elemento accessorio del nostro sistema sociale». Pur rimanendo nell’ambito teorico, della democrazia sociale, Moro entra nella complessa questione interna che contribuiva a corrodere i rapporti tra i partiti italiani nella primavera 1947: cioè quanto far partecipe il mondo dei lavoratori degli effetti positivi della ricostruzione del paese. «Questa crisi – rileva il giovane Costituente – che va corrodendo l’ordinamento democratico e le strutture sociali del nostro paese può essere vinta soltanto da una volontà operosa, che, evitando gli orrori del passato, offra alla urgenza e alla gravità della situazione il rimedio di uno straordinario impegno di fiducia e di collaborazione. […] La crisi della democrazia dipende anche dalla superficialità e dalla formalistica faciloneria di talune correnti convinzioni, che ne esauriscono la sostanza più profonda e umana. Se è rischioso il passaggio da una democrazia politica ad un’altra sociale, se v’è il pericolo che questa sia […] un indebito ed inumano soffocamento di alcuni essenziali valori di libertà, è certo però che questa è una prova necessaria cui la democrazia va incontro». Quello che prospetta ai cattolici è un impegno preciso nel far sì che la democrazia politica sia anche democrazia sociale per soddisfare tutte le esigenze di giustizia proprie dell’essere uomo: «Noi cristiani più degli altri dovremmo sentire la necessità di dare alla democrazia un completo e concreto contenuto di operante solidarietà, mentre troppo spesso limitiamo le nostre cure e la nostra fiducia soltanto alle fredde e rigide linee di una democrazia puramente politica. […] Senza che diventi sociale, la democrazia non può essere neppure umana, finalizzata all’uomo cioè con tutte le sue risorse e le sue esigenze. Se essa resta strettamente politica, angustamente politica, questo raccordo con l’uomo, ch’è per il cristiano ragione essenziale di accettazione, diventa estremamente difficile e, ove pure risultasse stabilito, si rivelerebbe effimero e poco costruttivo. La democrazia è un tutto con molteplici interferenze […] Sarebbe grave colpa per i cristiani creare il mito della democrazia politica, la quale è la premessa indispensabile, la base del sistema, ma non è tutta la democrazia, ch’è regime di libertà non solo, ma di umanità e di giustizia»[20].

Queste note sulla democrazia sociale ci danno in pieno l’apertura culturale del personaggio Moro, ma anche quanto sia solido, organico il suo umanesimo; esse si coniugano con altre note di approfondimento riguardanti la concezione cristiana del lavoro, ma anche il ruolo degli uomini di cultura. Il saggio sulla concezione cristiana del lavoro viene pubblicato su “Studium” nel primo numero del 1945. Ci interessa per alcune idee di carattere generale. Mentre la guerra sta volgendo al termine, Moro ritiene che sul problema sia necessario un «esame di coscienza» per «capirci meglio» tra i dirigenti e per «adeguare la prassi a questa comprensione»[21]. Egli sa bene la forza espansiva dei movimenti di ispirazione socialista, basata sulla capacità di rappresentare il mondo del lavoro. E dato che conosce bene anche come il lavoro e il lavoratore siano centrali nel mondo cristiano, contesta la presunta alternatività tra civiltà cristiana e civiltà del lavoro[22]. In sintesi. Moro insiste sul fatto che il lavoro non è una condanna, né una pena, conseguenza del male; lavoro e vita si identificano: «il lavoro non è un agire per agire, ma un agire per vivere. Esso è naturalmente utile nella misura in cui è utile la vita»[23]; il lavoro corrisponde alla richiesta di vivere da parte della persona umana, per cui «la persona nel lavoro rivendica il diritto, afferma il dovere di vivere. Il lavoro deve essere, come produttivo, redditizio per il soggetto. La richiesta di compenso, di giusto compenso, non è cosa sulla quale si possa sorvolare […]. Un uomo che domanda di vivere ed afferma il significato economico del suo lavoro, va rispettato. Perché la vita è dono di Dio»[24]. Moro fa anche riferimento alla Rerum Novarum per rilevare il posto che i diritti e i doveri del lavoro nonché il rapporto tra lavoro e proprietà hanno nella dottrina sociale della Chiesa. A conclusione del saggio il giovane politico pone due forti ed emblematiche affermazioni: «che una civiltà del lavoro […] non può essere che cristiana»[25] e che pure «una civiltà cristiana non può che essere una civiltà del lavoro», aggiungendo, con una mossa quasi di sfida: «o, se vogliamo dire una brutta parola di moda, una civiltà proletaria»[26].

Tale attenzione di Moro al mondo del lavoro va collegata con la presa di posizione chiara, rivolta agli uomini di cultura, nel numero di maggio sempre del 1945, di schierarsi «con le forze del lavoro, forza accanto ad altre forze»[27]. L’esortazione è rivolta formalmente ai laureati di Azione cattolica, ma nell’articolo Moro chiama in causa tutta la “cultura”, cui chiede di «liberarsi da connivenze con inammissibili privilegi economici e sociali»[28] e di fare una decisiva scelta di campo, non tanto partitico quanto culturale.

Questa sommaria rassegna di taluni interventi di Moro dà già il senso delle sue idee, dei suoi ragionamenti, delle sue preoccupazioni civili e politiche. Si potrebbero ancora citare gli interventi di critica al collettivismo[29] e, invece, di accettazione dell’interclassismo[30]; o l’attenzione al riformismo e umanesimo socialista[31] nonché il dialogo che in tantissimi stelloncini dell’“Osservatorio” intrattiene con organi della stampa socialista; la critica all’“Uomo qualunque”, alla sua politica, al progetto di vita decadente e «rinnegamento della dignità umana»[32]; l’affermazione chiara della «certezza del diritto», quale «condizione indispensabile per una vita sociale ordinata»[33]; soprattutto non possono essere trascurati i suoi numerosi interventi sui problemi della nuova Costituzione, ricordando anche che con Dossetti, per conto della DC, è tra coloro che hanno un ruolo fondamentale nell’elaborazione del testo.

Nella fase di avvicinamento alle elezioni del giugno 1946 Moro sottolinea il momento decisivo, di grande responsabilità, «un momento di tensione spirituale per una costruzione che è spirituale essa pure e non giuridico-formale»[34]; nel febbraio 1947, mentre sta iniziando in Assemblea la discussione sul progetto di Costituzione, Moro ricorda che la «Costituzione delinea la struttura dello Stato […] soprattutto racchiude le intuizioni e gli orientamenti dominanti di un popolo in relazione a tutti, si può dire, i valori umani, esprime un costume morale, indica le grandi certezze sulle quali è fondata quella convivenza che ha nella costituzione il suo fondamento»[35]. Poi il 13 marzo 1947 Moro è l’oratore ufficiale per la DC sui principi fondamentali della Costituzione; nel suo intervento respinge la tesi di chi vuole una Costituzione semplicemente afascista, evidenzia che in tale fase è «in gioco tutta la civiltà del nostro paese» e che «fare una Costituzione significa cristallizzare le idee dominanti di una civiltà, significa esprimere una formula di convivenza, significa fissare i principi orientatori di tutta la futura attività dello Stato»[36]. Dopo l’approvazione dell’art. 1 scrive che la dichiarazione posta nell’articolo deve essere «salutata come soluzione cristiana di drammatici conflitti sociali e premessa di fecondi sviluppi verso una meta di giustizia, di benessere e di pace»[37]. Poi nel gennaio 1948 annota che il nuovo anno inizia «felicemente con l’entrata in vigore della nuova Costituzione che rappresenta […] il ritorno alla normalità nelle istituzioni dello Stato»; rileva che «le istanze di libertà civile e politica […] e quelle relative alla giustizia sociale […] sono armonicamente congiunte», aggiungendo un significativo giudizio sintetico: «quest’armonia è la chiave di volta di questa costituzione rigidamente democratica e arditamente sociale»[38].

Chiusa la fase dell’Assemblea costituente, Moro dall’aprile 1948 viene eletto deputato nella circoscrizione Bari-Foggia, poi riconfermato nelle legislature successive. Ancor prima di divenire segretario nazionale della DC nel marzo 1959, egli ricopre importanti cariche: nel V governo De Gasperi è Sottosegretario agli Esteri (maggio 1948 – gennaio 1950); Ministro della Giustizia (luglio 1955 – maggio 1957) nel I governo Segni, quindi Ministro della Pubblica Istruzione nel successivo Governo Zoli (maggio 1957 – luglio 1958), carica mantenuta (luglio 1958 – febbraio 1959) nel governo Fanfani formatosi dopo le elezioni politiche del 1958.

Succeduto a Fanfani alla guida della DC, con una operazione che mira a ricucire una realtà partitica frammentata e che considera Moro un segretario provvisorio che arrivasse al successivo congresso del partito, questi invece diviene, da allora, il riferimento più autorevole della politica italiana, con qualche battuta di arresto, qualche perdita di posizioni solo dopo le elezioni politiche del 1968, posizioni, però, ben preso recuperate.

Al vertice del partito e della scena politica nazionale, le sue posizioni politiche si situano sostanzialmente sul solco tracciato da Sturzo e De Gasperi per quanto riguarda «i rapporti tra partito e mondo cattolico, tra partito e sviluppo complessivo della società, tra partito e compiti dello Stato»[39]. Quella ricchezza di pensiero, quell’apertura ai problemi del mondo ma tenendo ferma l’ispirazione cristiana, che si sono viste nel periodo 1945-48, le troviamo ampliate da un’esperienza che induce Moro a puntare e credere sui valori, come ricorda in un Convegno di democratici cristiani a Roma nel maggio 1969: «Per quanto riguarda noi, siamo uomini liberi […] La nostra è una battaglia di idee e di valori che , fortunata o sfortunata che sia nell’immediato, infine intaccherà le radici di un sistema che riteniamo anacronistico e inaccettabile. Noi ci auguriamo, malgrado tutto, di non essere di fronte ad una fortezza chiusa ed imprendibile. Abbiamo, per sospingerla ad aprirsi, più che la forza, le idee ed i valori nei quali crediamo»[40].

Fin dal discorso di insediamento alla Segreteria, Moro si muove con l’intenzione di perseguire il raggiungimento del centro-sinistra, linea politica che la DC di Fanfani ha deciso di intraprendere al Consiglio nazionale di Vallombrosa nell’estate 1957, ma che nel mondo cattolico e all’interno dello stesso partito trova molte contrarietà e opposizioni. Centro-sinistra, che significa apertura ai socialisti e netta chiusura al PCI, attraverso un percorso che riesca a preservare l’unità della DC.

Centro-sinistra e unità del partito costituisce un po’ un capolavoro di Moro, date le diverse anime del partito e le difficoltà del mondo cattolico. Sia al congresso di Firenze (23-28 ottobre 1959) che al successivo di Napoli (27-31 gennaio 1962), con la sua abilità di mediazione riesce a far stemperare molti contrasti di corrente e a mandare in porto la linea di centro-sinistra, che avrebbe realizzato un allargamento delle basi della democrazia, rispecchiando così proprio la funzione storica che la DC intendeva assolvere nella società italiana.

Dopo le elezioni politiche del 1963, tocca a Moro di presiedere i governi di centro-sinistra organico con la presenza di ministri socialisti guidati da Nenni. Moro presiede tre governi di centro-sinistra tra dicembre 1963 e giugno 1968. Questo centro-sinistra organico viene alla luce dopo un dibattito protrattosi per diversi anni, che aveva suscitato nel paese molte aspettative ma anche contrasti; entra nella fase operativa mentre è in esaurimento la fase spettacolare del boom economico, seguita da momenti anche recessivi e di crescita del costo del lavoro. Talune riforme strutturali (legge urbanistica, programmazione, ordinamento regionale) non hanno quella incisività ipotizzata. La riforma ospedaliera, la legge sulle pensioni, gli aiuti all’agricoltura e altri provvedimenti non riescono a far superare la delusione che il centrosinistra non avesse corrisposto alle attese. Lo scandalo Sifar e la mancata riforma universitaria, bloccata essenzialmente dalla contestazione giovanile, influiscono anche sull’esito elettorale del maggio 1968. Appare equilibrata l’analisi di Scoppola: «processo di svuotamento dei contenuti programmatici e di sopravvivenza di un’alleanza fine a se stessa»[41]. Su Moro, Presidente del Consiglio, viene riversata la responsabilità delle mancate riforme, della poca incisività, facendo emergere la considerazione generale del centro-sinistra come grande opportunità politica mancata.

I giochi interni di corrente (quella dorotea) pongono Moro fuori dal governo, in una posizione defilata. Si è parlato anche di sbandamento di Moro dopo il ’68. Egli, dopo il silenzio dei mesi estivi, al Consiglio nazionale del partito del 21 novembre 1968 riprende a tessere le fila della politica italiana con una riflessione come al solito intelligente e profonda, con una notevole attenzione ai mutamenti in atto nella società. Parla dei «tempi nuovi [che] si annunciano ed avanzano in fretta come non mai»: esplicita che la DC debba fare una sintesi tra il nuovo che emerge e i valori che debbono essere salvaguardati. Nell’ambito di una «politica intensamente umana», Moro sollecita il partito a sintonizzarsi con convinzione sul quadro nuovo della società, «in una visione dell’uomo e della società, della libertà, della dignità, della giustizia e della pace, che si ricollega ad idealità cristiane, senza la pretesa di interpretarle in modo esauriente ed esclusivo»[42]. Nella medesima sede, cogliendo di sorpresa tutti, comunica di aver deciso di «assumere una posizione autonoma nella organizzazione interna della DC», cioè di passare all’opposizione, con la costituzione di un proprio gruppo, una corrente: la sua separazione dalla vecchia maggioranza dorotea, come precisava due mesi dopo, era un’operazione «dolorosa ma feconda», «scomporre per ricomporre, abbandonare a poco a poco il vecchio, per permettere al nuovo di nascere»[43], ma sempre attorno ai valori dell’ispirazione cristiana, della scelta popolare e democratico-personalista[44].

Quanto Moro sia convinto della capacità riformistica del centro-sinistra, emerge quando manifesta la sua contrarietà ai governi di centro, presieduti da Andreotti tra 1972 e 1973; e, non appena si presenta l’occasione, diventa il regista della ricostituzione del centro-sinistra al congresso DC di Roma del giugno 1973, che riporta Rumor alla Presidenza del governo e Fanfani alla segreteria del partito.

Intanto, dopo il ’68, la crescita di consenso del PCI induce Moro ad aprire quella che definisce «fase di una strategia dell’attenzione» verso la presenza del PCI nella realtà politica e sociale italiana. Con puntiglio precisa che si tratta non di avviare con i comunisti una comune gestione del potere, ma di dar corpo ad un serio e corretto rapporto dialettico, «il vero modo di essere della democrazia»: per quanto riguarda il rapporto con il PCI, Moro ha ben chiaro che quelle di DC e PCI sono esperienze storiche con «molte divergenze e limitate convergenze», ciascuna con «propria intuizione del mondo e propria visione dell’uomo»[45]. Entro queste coordinate Moro si mantiene anche quando il PCI di Enrico Berlinguer avanza nell’ottobre 1973, dopo i noti fatti del Cile, la proposta di compromesso storico. Dopo il referendum del maggio 1974 sul divorzio e dopo la crisi del governo di centro-sinistra di Rumor, tocca di nuovo a Moro trovare la via d’uscita dall’impasse, con un governo DC-PRI (23 novembre 1974), sostenuto anche da PSI e PSDI. Questo governo Moro (il quarto), che nasce nell’ambito delle forze politiche che sempre hanno sostenuto il centro-sinistra, risente dello scontroso travaglio dopo la crisi petrolifera e dopo l’esito del referendum, ma respinge il compromesso storico e si dichiara aperto ad un rapporto dialettico col PCI.

Quando il PSI a fine dicembre 1975 opta per la politica degli equilibri più avanzati e per il conseguente ritiro della fiducia al governo, dopo un ampio e tortuoso dibattito tocca ancora a Moro presiedere il governo (il quinto governo Moro, 12 febbraio 1976), che riceveva l’appoggio di DC e PSDI, mentre si astengono PSI, PRI e PLI e votano contro i comunisti e i missini. Moro è estremamente consapevole della fragilità del quadro politico dopo tale scelta del PSI, che si muoveva in un’ottica di alternativa alla DC. Al congresso democristiano di marzo, Moro riconosce che la politica di centro-sinistra era considerata esaurita dal congresso del PSI; che non può essere riproposta meccanicamente, ma si tratta di salvarne “il nucleo vitale”, cioè «la collaborazione di due forze popolari certamente diverse, caratterizzate da peculiari tradizioni e intuizioni, ma capaci di confluire in un disegno rinnovatore e di giustizia della società italiana». Passando a parlare del PCI, rileva che la sua evoluzione non può indurre a «considerare risolta la questione comunista»: nel respingere ancora il compromesso storico, lancia l’idea che «un serio, rigoroso e rispettoso confronto con il PCI è lo strumento necessario e anche sufficiente per garantire la dialettica democratica»[46].

Dopo le elezioni politiche del giugno 1976, che premiano DC e PCI, non ritenendo che esistano le condizioni per associare il PCI al governo, Moro favorisce la formazione di un governo monocolore democristiano, guidato da Andreotti, che si regge sulla “non sfiducia”, cioè sulle astensioni, degli altri partiti dell’arco costituzionale (6 agosto 1976).

Intanto in Parlamento si concretizza con il PCI un confronto sempre più aperto su vari punti programmatici, tanto che si arriva a formalizzare in un documento, approvato con mozione alla Camera il 15 luglio 1977, in cui i sei partiti si impegnano su tale accordo di programma a sostenere il governo: la situazione politica di fatto cambia con il passaggio dalle astensioni all’appoggio su un accordo di programma. In un bell’articolo, scritto ad aprile, Moro inquadra la situazione in una visione molto più ampia e di alto significato: «anche se talvolta profondamente divisi, anche ponendoci, se necessario, come avversari, sappiamo di avere in comune, ciascuno per la propria strada, la possibilità e il dovere di andare più lontano e più in alto. La diversità che c’è tra noi non ci impedisce di sentirci partecipi di una grande conquista umana. Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino; è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo. La pace civile corrisponde puntualmente a questa grande vicenda del libero progresso umano, nel quale rispetto e riconoscimento emergono spontanei, mentre si lavora, ciascuno a proprio modo, ad escludere cose mediocri, per fare posto a cose grandi»[47].

Quando sul finire del 1977 il governo Andreotti entra in crisi, poiché il PCI reclama partecipazione diretta a un governo d’emergenza ritenuto necessario dall’aggravarsi della situazione, tocca ancora a Moro tessere le fila di quel progetto che avrebbe condotto alla costituzione del governo di solidarietà nazionale (16 marzo 1978), presieduto ancora da Andreotti, in cui il PCI entra nella maggioranza ma non ha rappresentanti nel gabinetto ministeriale. É una situazione difficile, senza alternative, data l’impraticabilità di qualsiasi ipotesi di centro-sinistra. Moro, con prudenza e intelligenza, ben a conoscenza delle pressioni internazionali sia americane che sovietiche, operò per convincere i gruppi parlamentari democristiani a dare il proprio assenso all’entrata del PCI nella maggioranza ma non nel governo; per convincere il PCI che non c’erano le condizioni per una alleanza politica (il compromesso storico). L’interpretazione più plausibile è che Moro, in quella situazione di emergenza, con tutte le cautele possibili stesse operando per assicurare al paese un processo di “democrazia compiuta”, accettando il coinvolgimento graduale e temporaneo del PCI nella maggioranza, fatto che poteva costituire la premessa della legittimazione di questo partito a governare nell’ambito del gioco dell’alternanza e nel rispetto dei principi costituzionali della democrazia parlamentare.


Giancarlo Pellegrini

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NOTE

[1] R. MORO, La formazione giovanile di Aldo Moro, in “Storia contemporanea”, n. 4/5, 1983, pp. 804 e 819-820.
[2] Così scriveva don Costa nel maggio 1939 (ivi, p. 952).
[3] A. MORO, Per una iniziativa politica della Democrazia cristiana, Agenzia Progetto, Roma 1973, p.75.
[4] G.B. SCAGLIA, Introduzione. Aldo Moro dall’Azione cattolica all’azione politica, in A. MORO, Al di là della politica e altri scritti. “Studium” 1942-1952, a cura di G. Campanini, Studium, Roma 1982, p. 11.
[5] A. MORO, La funzione di “Studium”, in ID., Al di là della politica e altri scritti. “Studium” 1942-1952, cit., pp. 267-268: l’articolo fu pubblicato nel n.12 (dicembre) del 1945 a p. 369.
[6] A. MORO, Liberazione, in “Studium”, n. 1-2, 1945, pp. 1-2, ora in ID., Al di là della politica e altri scritti. “Studium” 1942-1952, cit., pp. 69-71.
[7] A. MORO, Di fronte alla Costituente, in “Studium”, n. 3, 1946, p. 65 (ora ivi, p. 95). Sull’argomento ecco qualche altra riga di commento dopo l’elezione della Costituente: «Gli avvenimenti che si sono svolti e si vanno svolgendo in Italia con ritmo incalzante esigono una compiuta e viva presenza di tutti i cittadini nella nuova storia del nostro paese. […] Partecipazione che è diritto e dovere ad un tempo; che esprime la conquistata sovranità democratica come piena affermazione di libertà ed indica ad un tempo le vie faticose e difficili, per rendere significante e feconda l’attribuzione di poteri che la travolgente evoluzione della recente storia d’Italia ha compiuto” (A. MORO, Una nuova storia, in “Studium”, n. 6-7, 1946, p. 161, ora ivi, p. 99).
[8] A. MORO, Una nuova storia, cit., (ora ivi, p. 102).
[9] A. MORO, Tra il contingente e l’eterno, in “Studium”, n. 7-8, 1945, p. 193 (ora ivi, p. 248).
[10] A. MORO, Dignità della politica, in “Studium”, n. 3, 1947, p. 101 (ora ivi, p. 291).
[11] Cfr. A. MORO, Speranza, in “Studium”, n. 12, 1947, p. 417 (ora ivi, p. 140): «visione molto vasta, molto pura, molto forte. Lavoriamo e soffriamo probabilmente non per noi, ma per chi verrà dopo di noi, per la verità che è più grande di noi, perché sia affermata e trionfi».
[12] A. MORO, Dignità delle politica, cit., (ivi, p. 291).
[13] A. MORO, Per una iniziativa politica della Democrazia Cristiana, cit., p. 73.
[14] A. MORO, Al di là della politica, in “Studium”, n. 7-8, 1945, p. 181 (ora in Al di là della politica e altri scritti. “Studium” 1942-1952, cit., pp. 81-82).
[15] Ivi, pp. 82-83.
[16] A. MORO, Annunciare la dignità di ogni uomo, in “Studium”, n. 7-8, 1945, p. 203 (ora ivi, p. 251).
[17] A. MORO, Una nuova storia, in “Studium”, n. 6-7, 1946, p. 162 (ora ivi, p. 101).
[18] A. MORO, Speranza, in “Studium”, n. 12, 1947, p. 417 (ora ivi, p. 140). All’incirca a metà di questo editoriale Moro, dopo aver precisato con il plurale maiestatis il senso del proprio impegno («Lavoriamo e soffriamo probabilmente non per noi, ma per chi verrà dopo di noi, per la verità che è più grande di noi, perché sia affermata e trionfi»), ha un’espressione, che può considerarsi profetica riguardo alla propria esistenza: «Mettiamo in conto anzi la nostra personale sconfitta, perché essa è nulla confrontata con gli ideali che il nostro sacrificio deve salvaguardare».
[19] A. MORO, Vera e falsa democrazia, in “Studium”, n. 3-4, 1945, p. 80 (ora ivi, pp. 239-240).
[20] A. MORO, Democrazia integrale, in “Studium”, n. 4, 1947, pp. 113-114 (ora ivi, pp. 124-127).
[21] A. MORO, Concezione cristiana del lavoro, in “Studium”, n. 1-2, 1945, p. 3 (ora ivi, p. 169).
[22] Cfr. ivi, p. 170.
[23] Ivi, p. 175.
[24] Ivi, p. 176.
[25] Precisando: «Ché cristiana è la rivendicazione dell’intimità dell’uomo, cristiano il principio della responsabilità morale, cristiana l’idea di un nesso sociale infrangibile, cristiana […] l’idea della giustizia» (ivi, p. 181).
[26] Precisando: «Ché il lavoro è la concretezza vibrante della vita, atto operoso, certissimo di amore» (ibidem).
[27] A. MORO, Decisioni, in “Studium”, n. 5, 1945, p. 114 (ora ivi, p. 75). Testo preciso: «la decisione che si attende da noi oggi è di essere schierati con le forze del lavoro».
[28] Ibidem.
[29] A. MORO, Presenza spirituale, in “Studium”, n. 10, 1946, pp. 265-266 (ora ivi, pp. 107-109).
[30] A. MORO, Il senso dell’interclassismo, in “Studium”, n. 10, 1946, p. 289 (ora ivi, pp. 277-278).
[31] In una bella recensione al dramma di Silone, Ed egli si nascose (in “Studium”, n. 6, 1945, pp. 166-167, ora ivi, pp. 190-196), Moro, approfondendo il vissuto dei personaggi descritti da Silone, accenna al problema dei rapporti tra cristianesimo e socialismo, indicando – in questa occasione come in altri interventi nella rivista – la convergenza di taluni indirizzi ideali.
[32] A. MORO, Contro l’“Uomo qualunque”, in “Studium”, n. 9, 1945, p. 266 (ora ivi, pp. 255-256).
[33] A. MORO, La certezza del diritto, in “Studium”, n. 5, 1947, p. 158 (ora ivi, p. 295).
[34] A. MORO, Di fronte alla Costituente, in “Studium”, n. 3, 1946, pp. 65-66 (ora ivi, p. 95).
[35] A. MORO, Spunti sulla Costituzione, in “Studium”, n. 2, 1947, pp. 33-34 (ora ivi, p. 116).
[36] Per l’esame dell’attività di Moro alla Costituente cfr. U. DE SIERVO, Il contributo alla Costituente, in Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, a cura di P. Scaramozzino, Giuffrè, Milano 1982, pp. 79-122.
[37] A. MORO, Sull’art. 1 della Costituzione, in “Studium”, n. 4, 1947, p. 128 (ora ivi, p. 294).
[38] A. MORO, Inizio, in “Studium”, n. 1, 1948, pp. 1-2 (ora ivi, pp. 142-143).
[39] S. FONTANA, Moro e il sistema politico italiano, in Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, cit., p. 182.
[40] A. MORO, Una politica per i tempi nuovi, Agenzia Progetto, Roma 1969, p. 152.
[41] P. SCOPPOLA, La repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna 1991, p. 352.
[42] A. MORO, Una politica per i tempi nuovi, cit., pp. 5-33.
[43] Intervento al Consiglio nazionale del 18 gennaio 1969 (ivi, p. 45).
[44] Cfr. R. RUFFILLI, L’ultimo Moro: dalla crisi del centro-sinistra all’avvio della Terza fase, in Storia della Democrazia Cristiana. IV. Dal centro sinistra agli “anni di piombo”, Cinque Lune, Roma 1989, p. 324.
[45] A. MORO, Una politica per i tempi nuovi, cit., p. 54.
[46] G. GALLONI, 30 anni con Moro, Editori riuniti, Roma 2008, pp. 197-198.
[47] “Il Giorno”, 10 aprile 1977.

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