Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

martedì 30 settembre 2008

Il vento dell'odio

Un romanzo a due voci ambientato negli anni di piombo, ma anche un ritratto impietoso di un Paese che i conti con la propria storia non li ha voluti ancora fare. E questa la quinta del nuovo romanzo del giornalista e saggista Roberto Cotroneo, Il vento dell'odio (Mondadori, pp. 288, euro 18).

Un titolo, spiegano le ultime pagine del libro, per il quale Umberto Eco ‘'è stato decisivo''. Le voci sono quelle dei protagonisti: Cristiano Costantini e Giulia Moresco, terroristi entrati in clandestinità che non accettano di essere stati manovrati, certo a loro insaputa, da burattinai di cui non sapranno neanche il volto. Entrambi sono figli di padri con una doppia vita, che stanno per lunghi periodi lontani da casa: uno fa la spia ai servizi segreti e mastica nel cuore il fascismo di Mussolini, l'altro è un ‘compagno' che ha fatto della Cecoslovacchia la sua seconda casa e tiene in cassaforte documenti misteriosi.


Dopo l'esperienza della lotta armata, Giulia acquisterà la casa dove abitava Cristiano -ormai latitante da decenni in Argentina - e facendo dei lavori di ristrutturazione trova nascosto in un tramezzo un memoriale che li incatena entrambi al proprio passato. Riesce a farlo avere a Cristiano, che deve a tornare a Roma per affrontare le ombre degli anni Settanta, fantasmi che neanche il tempo può esorcizzare.

‘'È una storia in cui ho investito molto tempo e pensiero - spiega Roberto Cotroneo - Sono convinto che se non avremo chiarezza su ciò che è accaduto in quegli anni, saremo un Paese irrisolto. Ognuno deve prendersi le proprie responsabilità e non giocare coi fatti''. E a chi gli fa notare che il passato fa sempre continua irruzione nella vita servendosi a volte - come avviene per Cristiano, solo nel suo esilio a Puerto Piramides - di un pacco che contiene uno strumento musicale, un bandeneon marca Arnold e qualche foglio, Cotroneo replica: ‘'I segni del passato incidono comunque. Dopo aver ricevuto quel pacco Cristano torna come devono tornare tutti a fare i conti con la propria storia. Gli anni '70 sono è stato un periodo brutto della nostra vita. Abbiamo bisogno di tornarci per capire un periodo''.

‘'Il terrorismo - scandisce Cotroneo - non è stato il sogno di una generazione, è stato un passo di morte. E questo va riconosciuto senza sconti. Tanto è vero che, a distanza di trent'anni, stiamo ancora pagando quelle scelte'. L'uomo che abitava la casa gialla, il vecchio olandese, lucido e sempre in fuga, quando vedrai - insieme a Cristiano - alcuni ragazzi che si picchiano su una spiaggia, gli metterà una mano sul ginocchio dicendogli di non intervenire: ‘'Si chiama odio'', gli disse,‘'lo riconosci soltanto quando lo hai dentro di tè".

In queste pagine ricorre anche un'altra cifra testuale per dire ciò che passava nell'animo dei giovani di quel tempo di pietra: è l'odore del sangue. ‘'L'abbiamo coperto con l'ideologia - ci spiega Cotroneo - ma quel sangue c'è stato e resta. Resta sulle strade e nella storia, non si toglie finché non avremo il coraggio di guardarlo''. C'è anche un altro elemento proprio della narrazione di Cotroneo, già autore di romanzi e saggi tradotti in numerosi Paesi: il fermarsi sul ‘bianco e nero di quegli anni':

‘'Volevo vedere quale colore resta - rimarca ancora l'autore - l'unica cosa che non vorrei restasse è il grigio, quello del piombo e del cielo di allora. Il bianco e nero è anche un modo di ricordare giornali e tv di quel periodo. Anche loro non avevano colori. Qualche tinta a quelle immagini l'abbiamo poi messa negli anni successivi, ma non abbastanza. Lo dimostra il riproporsi ancora oggi di espressioni e azioni violente da una parte politica o dall'altra. Insomma - taglia corto Cotroneo - questa storia non riusciamo ancora a togliercela di dosso. E torna tutto, come un film a ritroso che non abbiamo mai guardato bene".

Quanto al ruolo dei ‘padri', che nell'architettura de ‘Il vento dell'odio' hanno una precisa funzione, quella di aver seminato male e raccolto peggio, il giornalista precisa: ‘'Abbiamo sempre dato l'immagine di un Paese bonario, dipingendo il ventennio fascista come una bizzarria della storia, così come abbiamo giudicato bizzarro il Pci filosovietico. Non è cosi: questo era ed è rimasto il Paese della doppia verità. Vi circola un'ambiguità costante e continua, dalla quale non siamo venuti fuori''.

Fu questo non vedersi più tra padri e figli a permettere l'orrore di quegli anni: ‘'Erano spari al buio, spari nella notte, verso una folla indistinta che non aveva nome". Anche oggi, invita a fare l'autore, in pochi hanno provato a guardare in faccia ‘'i padri e i familiari di quei ragazzi'' poi passati alla lotta armata: ‘'Con la destra questo è stato più facile, bastava dire che sono violenti e irrazionali di natura per mettersi la coscienza a posto. Con quelli di sinistra, invece, si è sempre stati assolutori: loro non erano violenti ma ‘ideologici'. Non era ovviamente cosi' - taglia corto Cotroneo - e abbiamo pagato anche per quello''.

La madre di Giulia, in un passaggio intenso della narrazione, le confessa: ‘'Tuo padre fu chiamato a Praga, ebbe il manoscritto originale di Moro, tutte le trascrizioni esatte degli interrogatori, una parte di nastri con la sua voce. Non so come". Quelle carte avrebbero potuto rivoltare la storia italiana come un calzino. E con le carte gialle dello statista democristiano ucciso, si affaccia un ulteriore mistero: chi è l'uomo che ha messo quei documenti nel tramezzo della casa dei Cristiano è ‘'mi ha tolto il sonno per molte notti''? Forse è vero: i manoscritti nascosti nel tramezzo della casa sono anche simbolo dei ‘'silenzi che un intero Paese non sa leggere".

Cotroneo cuce parti di storia, fa parlare segreti sussurrati di corsa. Soprattutto cose mal digerite, che tornano davanti agli occhi come fantasmi attraverso le carte di Aldo Moro ma anche attraverso la consapevolezza che nessun luogo - qui davvero ‘utopia' per dirla con l'autore - basta a mettere in salvo il cuore dai propri errori. Proprio del leader della Dc assassinato dalle Brigate Rosse, Cotroneo spiega: ‘'Aldo Moro è il simbolo di un Paese che voleva diventare diverso e non c'è riuscito. Il progetto del compromesso storico, come anche la strategia delle convergenze parallele, a molti non era accettabile.

Credo che l'omicidio di Moro - rimarca l'autore - sia stata la fine del processo di modernizzazione di questo Paese". ‘'La nuova Italia era identica a quella vecchia, solo che non voleva ammetterlo nessuno'', recita un'espressione del romanzo. E altrove: 'da noi il terrorismo non ha a che fare con la storia. È qualcosa di immobile, di fermo, di sempre uguale: è privo di storia, è privo di evoluzione, è semplicemente quello che si vede. Odio, morte e ideologia, un'ideologia sempre uguale".

C'è più bisogno di luce mentre si sprofonda e si aprono valigie che scottano. Il bandoneon è lo strumento ideale per suonare il tango, la musica della nostalgia e della perdita. Uno strumento musicale illogico, con i bottoni che suonano le note sistemati in modo casuale, o quasi. Con le sue coperture, Cristiano diventa Osvaldo Fresedo, un argentino che grazie ai falsi documenti è appena ‘nato'. Ma lui, la sua storia, quello che veramente pensava e voleva, ‘'non c'era più. Con quel nome era stato ucciso ancora''. Questa condizione lo porterà a un'altra decisione di morte quando si troverà di fronte il ‘Professor Italo', un altro personaggio chiave del romanzo, che cerca di richiamarlo in azione e esce di scena con il mistero insanguinato dei suoi libri in sanscrito e le sue citazioni del ‘Ribellè di Junger.

L'uomo che sta per suicidarsi, in una lunga lettera dirà: ‘'Voi pensate che tutto abbia sempre un inizio e una fine. In tutti questi anni ho imparato che l'ordine è una sorpresa che ogni tanto il caos riesce a concederti, ma è una sorpresa rara''. Il messaggio di Cotroneo è rivolto in particolare ai giovani: ‘'Ripensare in profondità quel periodo. Abituarsi a guardare dentro gli anni di piombo con occhi diversi, evitando giudizi scontati. In una parola: non fermarsi, se si vuol davvero comprendere davvero un pezzo di storia italiana mai chiarita fino in fondo''.

‘'Mi è stato detto che il nostro Paese è cambiato e che queste sono soltanto vecchia storia - spiega una pagina del romanzo - Mi è stato detto che forse è il silenzio la cura migliore per superare una lunga stagione di violenze e contraddizioni. Ho cercato di ascoltare tutti, ma non mi hanno convinto''.

C'è una polvere che assomiglia alla memoria. Il bandeneon deve essere suonato ancora: nel ‘vento dell'odio' porterà una musica che nessuno vuole ascoltare. Ma sono note che tornano sempre.

di Gerardo Picardo
www.agenziaradicale.com

Misteri italiani. Aldo Moro e Wojtyla, vittime di Yalta?

Sostenere la pista bulgara nel tentativo di omicidio a Giovanni Paolo II mi sembra molto difficile: per l'attentato al Papa si è indagato, con i limitati mezzi che ha un Pm, solo sul livello degli esecutori e non dei mandanti", spiega il giudice Rosario Priore facendo il punto, a 27 anni dai fatti, sui colpi sparati, il 13 maggio del 1981 a piazza San Pietro, contro papa Wojtyla.
Tre le ipotesi, al di là dei "limitati" risultati delle inchieste giudiziarie: la pista dell'Est, parzialmente accreditata dal Papa nel suo ultimo libro, quella islamica e la terza, la più sfuggente e complessa: quella che postula, al di là degli esecutori materiali del fatto, una sorta di convergenza, dichiarata o implicita, tra gruppi dirigenti oltranzisti dell'Est e dell'Ovest nel liquidare una politica del Vaticano, e un Papa, che stava mettendo in crisi nelle sue fondamenta l'ordine di Yalta.
Su questa pista, "molto affascinante" secondo Priore che stamane è intervenuto a Pomezia al corso promosso dal Polo universitario e dal Ceas (Centro Alti Studi per la lotta contro il terrorismo), ci sono state interpretazioni diverse e anche un richiamo ad un altro caso-chiave della nostra recente storia: l'assassinio di Aldo Moro .
Entrambe hanno in comune un obiettivo di fondo: quello di evitare a tutti i costi lo scompaginamento dell'equilibrio di Yalta che i circoli più oltranzisti di Est ed Ovest volevano mantenere il più a lungo possibile.
"Nella nostra inchiesta abbiamo trovato incredibili convergenze tra forze che dovevano essere contrastanti, in teoria", ha detto il magistrato che ha indagato sull'attentato a Giovanni Paolo II.
"Il capo brigatista Giovanni Senzani - ha detto Priore - ha parlato in suoi appunti del 'Terzo giocatore' tra Est ed Ovest, cioè degli interessi nazionali, spesso compressi, di singole nazioni in un campo e nell'altro. Ci sono Stati stati, servizi, che hanno cercato di 'erodere' l'ordine congelato a Yalta, politici che hanno cercato una 'terza via', ma il giudice deve camminare solo sulle prove. Questo è argomento più da storico che da magistrato".

Il criminologo Francesco Bruno ha puntato il dito su una pista mai emersa con chiarezza, quella della Chiesa Ortodossa, o meglio sulle frange oltranziste che si sono sempre opposte al dialogo tra la Chiesa Cattolica e Mosca. A riscontro le proteste espresse dalla Chiesa Maggioritaria in Ucraina quando il Papa incontrò il patriarca Filarete, durante il suo viaggio nel 2001 e la ferma opposizione al viaggio del Papa a Mosca.
"È un caso se alcuni dei messaggi che svelano il ruolo giocato nel rapimento di Emanuela Orlandi dalla Banda della Magliana sono proprio siglati Filarete? No, non è roba da delinquenti comuni ma da menti altissime e coltissime", ha concluso il criminologo.

mercoledì 10 settembre 2008

Lasciate stare Moro e Berlinguer

Sabato, Enrico Ghezzi, nel suo Blob ha mandato in onda pezzi di tribune politiche degli Anni 60-70 con i leader (Togliatti, Moro, Saragat, Fanfani, Berlinguer, Almirante e tanti altri «minori») interrogati dai giornalisti su casi che anticipavano la «questione morale» o ripresi mentre facevano un discorso su temi scottanti (Fanfani e Almirante sul divorzio).

Una di queste riprese riguardava Aldo Moro, allora (1960) segretario della Dc, al quale un giornalista chiedeva come spiegava il fatto che nella lista per le elezioni amministrative a Mussomali (grosso comune nella provincia di Caltanissetta) la Dc aveva incluso il capomafia Genco Russo. La risposta è imbarazzata («si tratta di un piccolo comune, non è capolista» ecc.) ma poi il leader dc afferma: «Non ci sono atti e documenti che qualifichino quel candidato come mafioso». La risposta fa pensare che Moro conoscesse il fatto anche se si verificava in un «piccolo comune» e non dicesse il vero, dato che c’erano atti e documenti che qualificavano Genco Russo come mafioso. Questo non vuol certo dire che Moro fosse colluso con la mafia, ma al contrario che la Dc (anche con Moro) preparando le elezioni del 1948 e successivamente per costruire la diga contro il comunismo e garantirsi il ruolo guida, accettò il «quieto vivere» (l’espressione è di Andreotti) con la mafia. E l’accettarono De Gasperi, Fanfani, Andreotti. Quest’ultimo operò con più spregiudicatezza, ma dentro quel quadro.

Ho ripreso questo pezzo della storia politica italiana per ricordare agli smemorati che Aldo Moro in tutti i momenti, anche nei più sgradevoli, difese il ruolo centrale della Dc alla guida del Paese. Ricordo anche il suo discorso alla Camera dei deputati in occasione delle accuse fatte ad esponenti della Dc per le tangenti pagate dalla società Usa Lockheed per le forniture di aerei: «Non ci faremo processare sulle piazze». E quando nel 1976 raggiunse con Berlinguer un’intesa di governo volle, fortemente volle, che a guidarlo fosse Andreotti, per garantire l’unità e il ruolo della Dc. Anche nella prigione delle Br le sue lettere hanno come asse la famiglia e l’incerto domani della Dc («il futuro non è più solo nelle nostre mani»).

Questo scenario mi è tornato in mente quando sull’Unità ho letto che nei circoli Pd sono ammessi due quadri, Moro e Berlinguer, santi protettori del partito. Ma, se Moro fu il leader democristiano che con più coerenza e determinazione difese il ruolo della Dc e dei cattolici democratici, Berlinguer fu il più deciso sostenitore dell’identità comunista del partito. Il leader del Pci si separò umanamente e politicamente dal comunismo sovietico con nettezza e determinazione e ricercò un rapporto con quei dirigenti socialdemocratici che si battevano per la causa del Terzo Mondo (Olof Palme, Willy Brandt), ma restò un comunista che, con la democrazia e le riforme di struttura, voleva superare il capitalismo e realizzare una società socialista. Per questo il Pci doveva restare, con la sua autonomia, nel campo anticapitalista e antimperialista e separato dalle socialdemocrazie.

Poi c’è stato l’89 e il crollo del Muro e del «campo», e non sappiamo come avrebbero reagito Moro e Berlinguer. Certo diversamente da come confusamente hanno reagito i loro eredi. I quali pur non avendo elaborato un loro pensiero, una strategia e una cultura per fare un partito, mettono nei circoli le foto di Moro e Berlinguer identificandoli come padri del Pd. Invece furono leader di due partiti con identità radicalmente diverse anche se li unì una forte tensione politico-morale nella guida dei loro partiti. L’operazione Dc-Pci, Moro-Berlinguer la fanno proprio coloro che ripetono sino alla noia che le culture politiche del Novecento sono morte e sepolte. Oggi autorevoli promotori del Pd dicono che questo partito «implode» (Scalfari domenica su Repubblica). E con Scalfari tanti altri. Ma perché implode? Perché c’è Veltroni e non D’Alema o Parisi o un quarantenne? Non scherziamo. Cari amici democratici, lasciate in pace Moro e Berlinguer, anche perché non meritano di «implodere» con il Pd e, se volete, avviate un confronto serio e reale su cos’è oggi questo partito e cosa potrebbe essere domani. Intanto il Papa dice che all’Italia occorre una nuova generazione di cattolici impegnati nella politica. Per chi suona la campana?

di Emanuele Macaluso
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