Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

martedì 17 novembre 2009

Un'analisi delle lettere di Moro: «Due volte prigioniero», di Rocco Quaglia

I terribili giorni del rapimento di Aldo Moro, allora presidente della Democrazia Cristiana, da parte delle Brigate Rosse, hanno lasciato una impronta indelebile nella memoria collettiva italiana, perché fu evidente tutta la debolezza dello Stato e si approfondirono le divisioni non solo tra schieramenti opposti, ma all’interno di alcuni partiti, la Dc in primis. Da allora sono stati versati fiumi di inchiostro, che hanno sviscerato non solo le dinamiche politiche e sociali di quei tragici cinquantacinque giorni del 1978, ma anche gli aspetti psicologici dell’uomo che il suo stesso partito non voleva riconoscere nelle lettere che inviava dalla sua prigione.

Rocco Quaglia, psicoterapeuta e docente universitario a Torino, prova ora ad analizzare quelle lettere alla luce di una analisi psicologica che rivela come l’isolamento dell’esponente democristiano fosse più profondo di quanto si possa pensare. «Due volte prigioniero» è infatti il titolo di questo «ritratto psicologico di Aldo Moro nei giorni del rapimento», come recita il sottotitolo. Perché il presidente Dc era insieme recluso ed escluso dal dialogo - e dalla trattativa - che egli tentava di iniziare con i suoi compagni di partito. I quali cercarono di far passare la tesi che Moro non era in possesso della sua libera volontà e che se mai era vittima della sindrome di Stoccolma, vale a dire del fenomeno di lento scivolamento verso le ragioni dei propri carcerieri da parte di persone tenute in ostaggio.

Quaglia analizza molte lettere di Moro e arriva alla conclusione che non solo esse esprimevano la vera volontà dell’uomo politico, ma volevano dire altro rispetto a quanto sostenevano i suoi amici e alleati politici: il leader democristiano era, secondo l’autore, in possesso della sua libera volontà, e voleva non solo e non tanto salvare se stesso, ma rimettere in equilibrio quanto il suo rapimento aveva compromesso: lo Stato e la sua famiglia. Quaglia interpreta le sue richieste di ascolto delle proposte di scambio brigatiste come possibilità per la democrazia di sopravvivere senza violenti traumi (si era nel periodo in cui l’allora Partito comunista era praticamente entrato nell’aera di governo dopo decenni di opposizione talvolta durissima) e per la sua famiglia di mantenere un equilibrio che rischiava di saltare trascinandola nel dolore e nell’angoscia.

In questa prospettiva è da leggere il rivolgersi di Moro al nipotino Luca, troppo piccolo per capire quello che stava succedendo: quel bambino rappresentava la vita, quella di Moro, quella della sua famiglia e quella dello Stato che rischiava di essere spazzata via, con conseguenze sociali e familiari nefaste. Quaglia analizza psicologicamente anche i brigatisti, che, se da una parte agitarono l’immaginario di una certa area giovanile, dall’altra emergono con «le loro fragili personalità, e le loro povere storie di bambini spauriti». A più di trent’anni di distanza da quei fatti, questo libro rappresenta un contributo al tentativo di storicizzare un evento che presenta ancora lati oscuri e inquietanti.

di Marco Testi
www.romasette.it

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