Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

mercoledì 23 settembre 2009

Lo psicologo: Moro non era un pauroso

Va in libreria oggi, che sarebbe stato il giorno del 93° compleanno di Moro, «Due volte prigioniero. Un ritratto psicologico di Aldo Moro nei giorni del rapimento», interessante volume Lindau (pp. 210, euro 16) firmato da Rocco Quaglia: psicologo, psicoterapeuta e docente di psicologia dinamica all’università di Torino. Dal testo riprendiamo qui parte dell’introduzione. Per la prima volta le lettere inviate dallo statista durante la prigionia vengono esaminate non come testi politici da decifrare, ma come gli scritti di un uomo che ogni giorno si confronta con la morte, con il senso della propria esistenza e di quella delle persone più care. In questo modo il volume evidenzia come Moro fu «due volte prigioniero»: delle Brigate Rosse e dell’immagine che di lui venne ostinatamente diffusa, vale a dire di una persona incapace di dominare l’emotività e preda dell’istinto di sopravvivere.

Vi è un equivoco che attraversa l’intera vicenda del sequestro Moro, e genera una diversa disposizione nei confronti dell’uomo, suscitando nei suoi riguardi una maggiore o minore disponibilità a entrare in empatia. Moro non voleva morire, e tale volontà era accompagnata, come rileva Leonardo Sciascia, da una preoccupazione quasi ossessiva per la famiglia.

Ha Moro usato «l’argomento famiglia nel sentimento, nella sentimentalità, nel pietismo in cui gli italiani lo usano»? Se assumiamo questa prospettiva, come in un dipinto di Caravaggio, vedremo le ombre prevalere sulla luce. Proviamo, invece, a pensare: Moro voleva vivere; in questo caso, è la luce che travolge e sorprende le ombre. L’espressione «non voler morire» contiene paura, e la famiglia diventa opportunità; «voler vivere» desta desideri, e la famiglia diventa motivo. Tentare di comprendere quel che era «noto» a Moro, nell’invocare la famiglia come ragione fondamentale della sua lotta per la vita, è proposito e argomento principale di queste pagine.

Moro reagisce al trauma dell’eccidio e alla violenza della «deportazione» non opponendosi né rassegnandosi. Non indulge nell’autocommiserazione, non si chiude nella depressione, non reagisce con comportamenti disordinati, non ricorre a modi interattivi di compiacenza, ma avanza le pretese dei propri ragionamenti. Ugualmente distanti da lui sono le immagini di vittima e di martire. La risposta di Moro è espressione di una personalità integrata, equilibrata e aderente alla realtà. Il prigioniero non veste né l’abito del penitente, né quello dell’impavido: a dettare i suoi comportamenti non è un infantile amore di sé, ma un affetto che si chiama responsabilità impegnata.

La preoccupazione primaria di Moro era una soltanto, salvare la sua famiglia dal dolore di una tragica
esperienza di lutto, e ciò esigeva la difesa della propria vita. Quanti intimamente hanno creduto che Moro eleggesse la famiglia a pretesto per salvare la propria vita dimostrano di essere molto lontani dall’affettività dello statista. Egli divina che la sua morte ucciderà altri: tutte le persone che ama, e tutte le persone che lo amano; antivede che la sua morte travolgerà il suo partito, e che «una pagina agghiacciante nella storia d’Italia» sarà scritta. Tutti i suoi timori si sono verificati, niente è stato più lo stesso, né per i suoi familiari, né per i «tanti fedelissimi delle ore liete».

Un’esistenza avvertita come impegno per l’altro motiva Moro a combattere per controllare le proprie angosce, per conservare l’unità della sua persona, per non rinunciare al diritto alla vita. Di quale vita? Non quella del politico, ma di una vita che, nelle relazioni familiari, ha trovato il significato più genuino, in particolare nella relazione tra un nonno e un nipote. È un traguardo di vita, questo, che si raggiunge «in tanti anni e in tante vicende, [quando] i desideri sono caduti e lo spirito si è purificato».

La vita è concretamente nelle relazioni, dove si può toccare, udire, vedere, non nei principi, o nelle idee di un’astratta legalità. D’altronde, preferire la vita per non sottrarsi a un compito, per risolvere un problema «grave e urgente», a costo di disilludere e deludere, comporta il superamento di ogni narcisismo e di ogni infantile bisogno di approvazione. Moro appare consapevole di sacrificare il suo amor proprio e di immolare coram omnibus la propria immagine; tuttavia, antepone il bene dell’altro al proprio, sfidando incomprensione, dileggio e ostracismo morale.

Ora, in nessuna lettera redatta da Moro è possibile cogliere una sola espressione di paura per la sua persona, dovuta alla morte; costante, invece, è l’ansia per la «famiglia». «È noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte». Non è tuttavia soltanto la famiglia, in cui era soprattutto la persona di riferimento, a preoccupare Moro, ma tutto quello che in trent’anni aveva costruito per il Partito, l’altra sua grande famiglia, di cui si sentiva ugualmente padre e responsabile. La stessa ossessiva preoccupazione per il nipote Luca, ringiovanito di un anno, rimanda alle ansie dello statista per l’anno 1976: un tal errore, più volte rinnovato, richiama l’attenzione su quel problema «noto» e irrisolto, che sta investendo, appunto, «la famiglia democristiana».

Il 20 giugno 1976 si erano svolte le elezioni politiche: il Pci seguiva dappresso la Dc, e l’onorevole Moro annotava: «I vincitori sono stati due, e due vincitori in una sola battaglia creano certamente problemi». Il 1976 è stato definito l’anno dello scampato pericolo, un pericolo che rischiava di stritolare il Paese tra i due blocchi, allora, contrapposti e imperanti. Moro è dunque in ansia non soltanto per i familiari, ma anche per la «famiglia», che regge le sorti di un Paese alquanto «scombinato».

Al segretario del suo partito scrive: «Le inevitabili conseguenze [della mia morte] ricadranno sul partito e sulle persone»; e ancora, come intrecciando le sorti delle due famiglie: «Con il mio è il grido della mia famiglia ferita a morte […]. Non creda la Dc di avere chiuso il suo problema, liquidando Moro».
Il prigioniero Moro sapeva che le sue lettere non erano state accolte: le condizioni di costrizione consentivano di confutare il loro valore. Si trattava, per Moro, di scegliere tra la difesa di un onore in linea con la ragione di Stato – sacrificando la propria famiglia – e la difesa di un Paese, che sapeva in «cattive» e «non oneste mani» – sacrificando la sua immagine di uomo e di statista. Moro scelse la vita, sapendo che soltanto in questo modo avrebbe vinto anche in caso di morte. A una memoria celebrata, preferì il ricordo di sé in chi lo amava, e non lasciò nulla d’intentato per salvare tutto quello che poteva essere salvato, salvando se stesso.

Moro, dunque, si dichiarò «in piena lucidità e senza avere subito alcuna coercizione della persona». Protestò la sua completa padronanza di sé sia per favorire le trattative, sia per tranquillizzare la famiglia. La risposta del governo arrivò immediata e spietata: Moro è divenuto un altro, la prova è nella sua dichiarazione di sanità mentale.

Alle logiche di potere e di opportunità dello Stato, Moro antepose quelle dell’uomo. È quanto emerge dalla lettura del suo epistolario, a condizione che si sappia restituire all’individuo la sua reale dimensione, costituita di cose quotidiane e di rapporti affettivi. Ogni altra dimensione è ingannevole e fallace: nei ruoli pubblici gioca sovente la «maschera». Nessuna «ombra» si aggira nelle lettere di Moro, da esse si evince che tutti i suoi ruoli, con gli studenti, con i collaboratori, con gli uomini della scorta, con lo Stato, ricalcavano i naturali ruoli della famiglia; inoltre, vi è un Moro che, in tutte le sue relazioni e scelte, sa essere e operare come un genitore responsabile e un «servitore» affidabile.

Proprio perché fino in fondo sano di mente, Moro ha potuto sfidare tutti i pregiudizi retorici, fino al punto da rendersi irriconoscibile agli «amici», e diventare così un nemico pericoloso e insano. Quanti, infatti, lo avevano conosciuto per «comunanza di formazione culturale, di spiritualità cristiana e di visione politica» hanno dichiarato: «Non è l’uomo che conosciamo».

Moro non era cambiato, stava semplicemente applicando a se stesso valori e umanità che aveva fino ad allora fatto valere per gli altri. Per la sua spiritualità cristiana non poteva disprezzare la vita, poiché non era per una testimonianza resa a Dio che era chiamato a offrirla: quella morte era inutile, perché la Democrazia cristiana, per lui, non era «cristiana». Moro non poteva neppure deprezzare la vita per un astratto principio, barattando il male concreto che avrebbe inferto ai familiari contro gli alti riconoscimenti che la sua figura avrebbe ricevuto. L’equivoco nasce dunque dalla dimensione genitoriale del sentimento di Moro.
Rocco Quaglia

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