Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

martedì 16 ottobre 2012

Caso Moro, parla l'artificiere che per primo vide il corpo di Moro

«Eravamo in guerra». Così racconta gli anni di piombo Vitantonio Raso, autore del libro «La bomba Umana», in cui ripercorre la tragica scoperta del corpo dell'onorevole Aldo Moro, stipato nel bagagliaio della Renault 4 color amaranto. «Oggi paragonerei i 55 giorni del rapimento Moro al crollo delle Torri Gemelle dell'11 settembre: un attacco al cuore dello stato». Lo Stato e l'antistato, le Brigate rosse, il terrorismo di destra e di sinistra, il contrasto tra la legalità e la sovversione, il panico. Il vissuto personale di Vitantonio, originario di Serre (Salerno), si intreccia con la storia sociale collettiva, fino a diventarne involontariamente protagonista indiscusso. Oggi ha 58 anni, è cavaliere al merito della Repubblica Italiana e funzionario in pensione della presidenza del Consiglio dei Ministri. All'epoca non aveva ancora 24 anni, ed era già specializzato come artificiere-antisabotatore. «Quella mattina fui uno dei primi ad arrivare in via Fani. All'epoca non si poteva dare inizio alle operazioni prima dell'arrivo dell'artificiere antisabotatore. C'erano brutti segnali. C'era stato il furto di grosse quantità di esplosivo. C'erano tutti i presupposti per un attentato».

Cosa provò?
«La sensazione fu orribile. Conoscevo quasi tutta la scorta: erano ragazzi della mia età. Sangue e bossoli dappertutto. Centinaia di colpi sparati. Il sangue ancora scorreva. Uno scenario inquietante. Ho cercato di trovare una ragione e un senso a quegli anni, ma non riesco a dimenticare. Fu disposto dal procuratore della Repubblica di Roma, Achille Gallucci, che fossi solo e soltanto io a seguire il caso, non perché fossi più bravo, ma per un fatto tecnico, perché in via Fani avevo lasciato le mie impronte. La tensione era alta, non bisognava sottovalutare nulla».

Che atmosfera si respirava?
«In quei 55 giorni Roma era una bomba a ciel sereno, tutte le strade erano bloccate, non si muoveva nulla, neanche la criminalità organizzata. Per la prima volta fu usato l'esercito come appoggio alle forze di polizia. Telefonate anonime, valigie sospette, anche per depistare: ho dormito pochissimo, sempre in allerta».

Parliamo del giorno del ritrovamento della Renault 4 col corpo di Moro.
«Erano le 11 di mattina. La volante 23 della polizia venne a prendermi in ufficio. Proseguimmo a velocità sostenuta. Furono molto vaghi: mi dissero che stavamo andando al centro di Roma, che c'era questa macchina e null'altro. Nessuno mi parlò di Moro. Arrivai alle 11.30. Fui lasciato solo. Una solitudine estrema. Era il mio compito: ero un servitore dello stato, che stava sacrificando se stesso. La Renault era completamente chiusa, anche il bagagliaio. La mia attenzione fu catturata da quella coperta di tipo militare. Sopra era appoggiato un portaoggetti di colore nero: dentro c'era una catenina d'oro, un orologio e un assegno del Banco di Santo Spirito intestato ad Aldo Moro. Lì capii. Il mio pensiero fu: oggi mi fanno la pelle, salto io e tutta la macchina. Il significato era chiaro, era stato colpito l'uomo dello stato al cuore dello Stato. Provai uno sdegno totale. Mi sono sentito come un servitore dello stato che muore. Noi credevamo in quei valori, lavoravamo 24 ore su 24. Quella di via Caetani era una disfatta».

Come ha vissuto dopo quell'evento?
«Passati quei giorni, non ho avuto più stimoli e nessuno mi ha cercato. È inevitabile portarsi dentro una simile vicenda. Nel ‘86 fui posto in congedo: accaddero strane cose e molti amici furono ammazzati».

Le sono rimasti dei dubbi?
«Ancora oggi mi aspetto delle risposte. È un caso ancora aperto e da discutere, con tasselli mancanti. Perché tutto questo arco di tempo tra la telefonata mattutina e il nostro intervento alle 11.30? Perché il diniego a raccontarmi il contenuto di questa telefonata? Perché non sono mai stati chiamato a testimoniare?».

Perché ha scelto il titolo «La bomba umana?»
«Io non sapevo nulla. La bomba simboleggia il silenzio di quella mattina: tutti sapevano, tranne me. Questa bomba umana potrebbe essere ancora dentro di me, esplosa o inesplosa. Ancora oggi è presente e potrebbe esplodere. Lo stato ha la responsabilità enorme di non averlo salvato, attraverso la linea della fermezza e decidendo per la non-trattativa. Ho avvertito che eravamo tutti pilotati, noi servitori dello Stato e anche i terroristi. C'erano tante classi politiche che non volevano il compromesso storico».

Barbara Landi
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2012/15-ottobre-2012/caso-moro-parla-artificiere-che-primo-vide-corpo-moro-2112257615662.shtml

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