Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

giovedì 21 maggio 2009

Caso Moro “Una nuova pista dal Paraguay”

Ecco l'articolo completo di Alessandro Grandi dal sito http://www.reset-italia.net postato in precedenza nella versione apparsa su "L'Espresso".

16 marzo 1978, via Fani, Roma. Un commando armato delle Brigate Rosse mette in atto il sequestro di Aldo Moro, allora presidente della Dc. L'agguato è spaventoso: 91 colpi sparati da sette armi.
Una in particolare, però, ne spara 49. Vanno tutti a segno e danno un contributo fondamentale all'operazione. Chi ha sparato con tanta decisione e tanta precisione? E' possibile che sulla scena del crimine fosse presente un killer professionista, magari ingaggiato per fare il lavoro e andarsene? Sono verosimili le ipotesi che negli ultimi trent'anni sono state fatte? Comparando l'abilità di tiro standard dei brigatisti, con quei 49 colpi andati a segno sembra possibile, se non probabile, che un uomo della 'ndrangheta fosse presente in via Fani il giorno dell'agguato.
Molto si è scritto sul caso Moro, ormai di quegli anni si crede di conoscere tutto. Ma sono altrettanti i dubbi e le fasi oscure che riguardano i cinquantacinque giorni che intercorsero dal rapimento all'uccisione dell'allora presidente della Democrazia Cristiana. Molti anche i personaggi oscuri che si crede abbiano ruotato intorno all'agguato di via Fani, a Roma. Uno di questi è appunto Giustino De Vuono la cui foto segnaletica fu inserita nella lista dei possibili partecipanti all'eccidio della scorta di Moro. Ma facciamo un passo indietro.
Asuncion, Paraguay, luglio 1981. Un'informativa diretta al capo del dipartimento d'investigazione della polizia della capitale paraguayana narra le vicende di un italiano trovato in Svizzera in possesso di documenti paraguayani falsi. Il soggetto in questione è Giustino de Vuono, in Italia conosciuto con il soprannome "lo scotennato" per via di una leggera calvizie. Come descritto dettagliatamente nel rapporto, sarebbe un "presunto integrante" delle Brigate Rosse oltre a essere indicato come uno degli assassini di Aldo Moro. C'è di più. De Vuono, nato a Sigliano nel 1940, ex legionario, è considerato un appartenente alla ‘ndrangheta. Da quanto si evince dal carteggio, stilato in data 4 luglio 1981, la presenza del De Vuono in Paraguay non è una novità: il documento analizza i suoi spostamenti e le sue azioni dal 1977 al 1980. Viaggi e passaggi da un paese all'altro del continente americano, sovente con documenti falsi.
Secondo la documentazione che è stata a lungo inseguita e poi ritrovata nel febbraio scorso all'interno del Centro de Documentacion y Archivio del Palazzo del Poder Judicial di Asuncion - dove è custodito il famigerato Archivio del Terrore della dittatura filonazista di Alfredo Stroessner in cui sono descritte minuziosamente tutte le vicende relative al Plan Condor - Giustino de Vuono sarebbe entrato in Paraguay in automobile, nel giugno del '77, con un documento d'identità falso a nome Antonio Chiodo. In quelle circostanze oltrepassò la frontiera che separa Brasile e Paraguay in località Puerto Stroessner (oggi Ciudad del Este, ndr), zona nota alle cronache odierne per via dei traffici illeciti che la animano giorno e notte.
De Vuono non era solo a bordo dell'auto. Con lui, infatti, c'era Anecio Daniel, accompagnatore con documenti brasiliani, proprietario del mezzo. Durante il viaggio incontra sicuramente quella che diventerà la sua fidanzata, Antonia Vallejos, e inizierà a gettare le basi per recuperare al più presto altri documenti falsi. Sono passati solo sei mesi dalla sua troppo facile fuga dal carcere di Mantova dove era detenuto.
Il 22 giugno dello stesso anno, i due uomini se ne vanno dal Paraguay. La loro permanenza lì è breve. E questa volta l'italiano utilizza la sua vera identità per lasciare il paese: Giustino De Vuono.
Nel 1977, dunque, la presenza di De Vuono fra Brasile e Paraguay è cosa certa. Com'è certa una sua dimestichezza nello spostarsi in quelle zone, anche accompagnato, e nell'utilizzare documenti falsi. Tutto questo, però, rivela che il periodo in questione è antecedente ai fatti che si riferiscono al caso Moro e alla sua eventuale presenza sulla scena del crimine. Ma c'è una grande curiosità. Nell'agosto del 1978 Antonia Vallejos e Giustino de Vuono si incontrano nuovamente nella capitale paraguayana Asuncion. Siamo a pochi mesi di distanza dal sequestro e omicidio del presidente Dc. Nel frattempo in Italia De Vuono è ricercato e nel dicembre dello stesso anno sarà emesso nei suoi confronti un mandato di cattura. Inoltre, il 15 dicembre 1978, la questura di Roma certifica che il soggetto in questione è "irreperibile". Infatti si trova fra Brasile e Paraguay.

L'informativa in mano ai poliziotti della dittatura stroessneriana puntualizza che nell'agosto 1979 Giustino de Vuono rientra in Paraguay. Lo fa sempre dalla stessa frontiera ma questa volta è da solo. In questo periodo, forse il viaggio in Paraguay serve a quello, Giustino de Vuono ottiene una Cedula de Identidad e un Certificato di Buena Conducta, come cittadino paraguayano e sotto il falso nome di Antonio Aguero. Questi documenti furono elaborati e preparati da due militari: l'ufficiale del dipartimento anti narcotici Luis Fernandez e il sergente Maggi. I due, forse inavvertitamente, raccontano la vicenda a un loro collega che riferisce ai superiori e denuncia il tutto. Da quel momento inizia un'indagine e la polizia di Stroessner cerca di mettere agli arresti De Vuono. Non ci riuscirà perché dall'Italia non giungeranno riscontri. Dal nostro paese, infatti, arriva la notizia che De Vuono non ha problemi di tipo giudiziario e nemmeno "antecedentes policiales". Almeno così racconta la vicenda un piccolo articolo apparso sul quotidiano paraguayano Abc in data 21 luglio 1981. Per questo viene rilasciato immediatamente. Ottenuta la documentazione necessaria, De Vuono se ne va un'altra volta dal Paraguay. In ogni caso è evidente che nel piccolo paese sudamericano il De Vuono potesse fare quasi ciò che voleva: una sorta di grande fratello lo guardava, controllava i suoi spostamenti, verificava quali documenti e con quali persone viaggiasse, senza fare nulla per fermarlo.
Durante giugno o forse luglio, anche il rapporto di polizia non è preciso, del 1980 De Vuono torna nuovamente in Paraguay. In questo caso cerca di ottenere altri documenti falsi, sempre corrompendo agenti di polizia, fra cui un Pasaporte Policial. Cosa che puntualmente avviene. Le visite del poliziotto corrotto a casa dell'italiano dai mille nomi sono un paio, come confermerà la sorella del sergente Maggi, che materialmente prepara la documentazione necessaria e la consegna nelle mani di quello che per lei è Antonio Chiodo. E così il De Vuono riesce a ottenere un passaporto paraguayano N° 424 rilasciato in data 15/01/1981, un Certificado de Buena conducta, rilasciato nella stessa data e la Cedula de Identidad N° 1.141.974. Tutti a nome Dionisi Amacio Martinez. Documenti falsi, trovati poi in suo possesso in Svizzera.
Il 15 luglio 1980 in Italia il Consigliere Istruttore Dr. Achille Gallucci invia al procuratore generale una documentazione in cui chiede la revoca del mandato di cattura per De Vuono e altri. Nel 1981 la vicenda di De Vuono sembra terminare con un fermo di polizia in Svizzera che consentirà di scoprire i documenti falsi dell'italiano.
"Certo non sarebbe una figura centrale del caso ma è un personaggio che non ha avuto tutta l'attenzione che avrebbe meritato" dice Aldo Giannuli perito della commissione stragi e professore all'università di Statale di Milano. "Non c'è dubbio che se dovesse essere confermata la presenza di De Vuono in via Fani, si sposta tutta la lettura del caso Moro. Perché ad esempio, Mario Moretti ci dovrebbe spiegare com'è arrivato in contatto con il calabrese De Vuono. E forse non solo lui. Anche Giulio Andreotti dovrebbe raccontare molte cose. In quel periodo era parte in causa. In quel momento poi, una delle piazze in cui si svolge la partita per liberare Aldo Moro è proprio la Calabria. C'è tutta una serie di personaggi che si muovono intorno alla vicenda. Insomma, ripeto che se davvero ci fosse stato un uomo della ‘ndrangheta in via Fani, bisognerebbe rivedere tutto il discorso relativo al caso Moro. In questo caso c'è però la novità che sappiamo che De Vuono è stato in Sudamerica e che ha ottenuto documenti falsi fra il 1977 al 1981. Sarebbe utile sapere perché De Vuono fosse in Paraguay e si spostasse avanti e indietro dal Brasile" conclude Giannuli.
Anche Sergio Flamigni, ex senatore del Partito comunista oggi in pensione custode di un archivio immenso relativo a P2, caso Moro e servizi segreti è d'accordo con Giannuli. "La figura di De Vuono è molto particolare. Sembra svanire nell'aria. Nonostante il riconoscimento da parte di Valentino (aprile 1978) a un certo punto la sua figura scompare. Ci sono poche informazioni che lo riguardano. Da sempre si è detto che potesse essere lui l'uomo della ‘ndrangheta presente sulla scena della strage di via Fani. Addirittura quello che ha sparato i quarantanove colpi a segno. Ma non si è andati troppo a fondo rispetto alla sua posizione e al suo eventuale ruolo. Ci sono molti dubbi ancora oggi ma c'è la sensazione che ci siano stati fattori ‘esterni' che abbiano contribuito a far sparire qualcuno dall'occhio del ciclone di quei momenti. Forse i servizi segreti", dice Flamigni che aggiunge "ormai è passato molto tempo. Questa è una storia italiana di cui probabilmente mai nessuno conoscerà la verità".

Alessandro Grandi

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